Sebbene in Italia l’improvvisazione libera abbia ancora un posto da relegati, vi sono senza dubbio musicisti in nucleo ristretto che svolgono una preziosa ed importante attività di sperimentazione e divulgazione: il caso del batterista Stefano Giust è emblematico di come la creatività abbia bisogno di raggiungere mete e settori diversi in cerca di commistioni possibili basandosi non solo sui canovacci che vanno avanti da anni (alla ricerca di spazi e di consensi): i musicisti odierni non possono più permettersi di avere formazioni musicali specifiche (solo jazz, solo classica, solo rock, etc.) poichè il futuro della musica (che non ancora viene visto nella sua interezza) gli impone una preparazione pluri-genere. Inoltre sarebbe il caso di considerare anche una formazione innovativa sullo strumento, un concentrarsi sulle potenzialità dello strumento suonato, fornendo novità che possono derivare dalla generazioni di nuovi suoni ottenuti tramite accostamenti con l’elettronica, utilizzo ampio delle tecniche di estensione, interazione con il computer. Stefano è assolutamente tutto questo e a completamento della sua passione ha avuto anche il coraggio di fondare un’etichetta discografica nel 1993, la Setola di Maiale (così chiamata per evidenziare il contrasto tra il ludico animale e quello che fornisce materia necessaria, richiamando la contrapposizione tra musica convenzionale e musica sperimentale) senza preoccuparsi della distribuzione. Se avete la pazienza di scandagliare la sua discografia (così come ho fatto io stimolato da alcuni ascolti), vi renderete conto di trovarvi di fronte ad un percussionista eclettico, fuori dagli schemi, a cui manca solo un eclatante episodio discografico che venga riconosciuto e pubblicizzato a livello internazionale.
Confesso di essere stato inizialmente spiazzato nel cercare lo stile di Giust diviso tra un drumming che tende ad esaltare delicatamente i contrasti delle bacchette che, partendo da alcune invenzioni amorfe di batteristi post-bop come Philly Joe Jones (sentire “Minority” o “Night and day” in “Everybody digs Bill Evans“) arriva alla acustica allergia creativa di Bennink, alla tessitura complessiva tipica dei batteristi free jazz americani e ad un drumming vicino alla composizione minimale; come chiarisce Stefano ……”... in effetti non ho mai avuto maestri o meglio, non sono stato allievo di nessuno… da giovane ho fatto un solo workshop, fu un pomeriggio e fu proprio con han bennink! 😉 ho sicuramente molte influenze tra cui, nel sangue, anche certa logica da drum machine/musica elettronica ed anche il minimalismo (sia l’attitudine, qua e là come contropartita dinamica e timbrica ai momenti fitti, ma anche il movimento nato a New york è sempre stata una fonte interessante per me… cose che si possono mischiare ad altre cose… è un work in progress che mi stimola moltissimo, così come l’attenzione al suono….”
Di lui, in una discografia oramai vastissima*, si apprezzano moltissimo i progetti solistici che vanno dall’antemico “Opera – The silence of the noise that Collapses” a “Margini di Riciclo” (un’opera “concreta” basata sull’utilizzazione di un impianto stereofonico casalingo approcciato a nastri magnetici), a “Musica delle circostanze” (interamente incentrato su pads elettronici minimali riproducenti interazioni coi suoni del vibrafono, marimba e xilophono), a “Pezzi Circolari” (un album domestico in cui suona di tutto dai tamburi al flauto dolce, dalla chitarra ad oggetti vari); poi si continua con MKultra (un’esperimento in territorio minimal-techno), Camusi (un’idea sperimentale di gran valore con la cantante Patrizia Oliva) e nel jazz non convenzionale si segnala il trio con Gebbia e Iriondo, il gruppo Squame (free improvvisation fortemente espressionista con il forte contributo del sax di Edoardo Ricci); inoltre Stefano impreziosisce in trio con Ceccarelli e Ciunfrini una composizione per contrabbasso e loop del compositore Vincenzo Ramaglia.
Un recente highpoint del percussionista è sicuramente il trio composto con Guazzaloca e Gerold di “Transition” costituito da tre improvvisazioni che sembrano voler richiamare (almeno così appare dalle intenzioni dei titoli) atmosfere surreali degli sciamani: l'”Arutam” e lo “Tsentsak” sono espressione della potenza degli dei e delle forze naturali. In tal senso quindi si tende ad evocare tratti di manualità di matrice indigena, un tribalismo nascosto nelle pieghe dell’improvvisazione libera: tre eccellenti esecutori, in perfetta sincronia, conducono un set scenico che non perde sostanza in nessun momento; il pianista Guazzaloca ammorbidisce nei timbri e nei clusters di suono molta dell’irruenza che richiederebbe il brano, trovando combinazioni in tendenza simbiotica con i partners, suoni che risultano quasi “orecchiabili”, definizioni acustiche che rendono l’idea del clima nervoso, dinamico e selvaggio della musica. Gerold usa magnificamente il flauto come una specie di generatore acustico di suoni emessi ad eguale distanza, una sorta di “sonaglio” che incolla la trama descrittiva; Giust è continuamente presente in una strana contrapposizione tra drumming leggiadro e qualcosa che è vicina alla tribalità intesa in senso descrittivo, non certamente nei volumi e nelle convenzioni udibili di solito nella musica libera, è in definitiva il collante della situazione. “Transition” fa pensare ad uno stato intermedio, un evento che si dovrà verificare di cui si è in ansia d’attesa perchè si teme che esso sia a sfavore, un prodotto che si inserisce, per inventiva ed energia, nelle migliori produzioni d’improvvisazione libera europee.
*vi consiglio di visitare il sito dell’etichetta per un dettaglio informativo.