Nel trattare gli Incanti di Simone Movio ho percepito chiaramente la presenza di ulteriori punti di contatto tra la sua musica e tanti elementi che si dirigono verso l’arte, le teorie sensoriali e l’organizzazione del mondo compositivo. Ne è nata una bellissima conversazione, un’articolata e lunga discussione tra me e Simone, di cui vi riporto alcune fasi salienti.
EG: Negli Incanti c’è probabilmente una ricorrente presenza, che in alcuni casi diviene assolutamente esplicita: mi riferisco a J.S. Bach, un compositore che ha fatto breccia su di te. Puoi dirmi che cosa ti ha colpito del compositore tedesco e quanto può ancora insegnare in un’era musicale dove da più parti arrivano stimoli al taglio deciso delle convenzioni.
SM: Da giovane esecutore, studiando ad esempio la fuga BWV 1000, mi chiedevo come mai fossero necessarie estrema forza e massima concentrazione per provare a venirne a capo, mi resi conto che ogni punto scritto sulla partitura era portatore di un’energia non immaginabile con i normali mezzi intellettuali così cari al nostro tempo: mi dissi che doveva esserci qualcosa d’altro che Bach conosceva ed io assolutamente no.
Ora conduco quotidianamente studi sulle opere bachiane ponendomi in continuazione la medesima domanda: l’intelletto in quanto portatore di pensiero astratto non ha misura né contezza di quel tipo di fenomeni che Bach ha infuso nelle sue opere. L’intensa forza che lega una nota con la successiva è della medesima guisa di quella che in una pianta fa reagire clorofilla, anidride carbonica e luce solare: è vita, energia vitale; è saggezza ed intelligenza, non intellettualismo. E’ idea.
Il continuo tentare di risalire all’idea compositiva bachiana significa avvicinarsi al segreto di questa energia vitale, di un pensiero in costante proiezione che plasma il vitale in ogni istante.
EG: Io credo che gli Incanti esprimono a perfezione la sensazione dello “stare a galla” sensorio, ossia del percepire una realtà in sospensione carica di un’ebbrezza che è uno stato percettivo che può essere sperimentato nella stessa misura in cui si rimane attoniti davanti ad un quadro o ad un’opera d’arte, folgorati dalla loro bellezza; è una gestalt naturale, che riesce a creare dimensioni anche nella memoria aurale. Scaligero nell’Uomo Interiore ha enucleato una profonda teoria sulla percezione, come forza-pensiero capace di svelare l’essenza delle cose ed in generale questo è un argomento piuttosto decisivo oggi nel ridefinire i veri contorni dell’ascolto musicale. Quali sono le tue idee al riguardo?
SM: Rispondo con un’opinione del tutto personale.
Se contemplo una Madonna di Raffaello o di Giovanni Bellini, mi sento posto di fronte al Femminino Universale, alla Vergine Sophia, come se il quadro agisse su di me e venisse quindi donato l’archetipo del Femminino: siamo di fronte a quelle che Pavel Florenskij chiama Porte Regali.
Per me questo oggi non è più possibile, non ho un accesso diretto: non ho le capacità, né le qualità.
Posso solo provare ad indurre l’ascoltatore ad una sua contemplazione interiore, perché la composizione è stata concepita attraverso la contemplazione di un’idea ed ho fiducia che essa qualcosa produca nel prossimo, sia esso anche microscopico e quasi impercettibile.
Forse mi sbaglio.
[Ci immergiamo gradualmente nella brusca ideologia del presente, quella della tecnologia e dei computers, discutendo sulle standardizzazioni dei sistemi comunicativi e sociali. In particolare siamo d’accordo sul fatto che la complessità, una circostanza che pervade oggi tutti i settori vitali dell’uomo (dalla gestione dell’economia a quelle dei cambiamenti climatici, dal riconoscimento dell’arte pura alle politiche di annullamento dell’autonomia decisionale dell’uomo), vada mantenuta e regolata con competenza e coscienza].
EG: Nel Libro di Terra e d’incanti hai fatto riferimento ad una complessità lessicale e musicale sulla quale Bajani ha indagato in senso positivo: in suo saggio Bajani ha usato un bellissimo parallelo tra comportamento degli uomini e letteratura, rimarcando come oggi esista una sorta di “dittatura” del presente (i nostri software ci chiedono sempre se salvare quanto abbiamo scritto, cancellando in maniera definitiva il passato) che depotenzia la letteratura, gli stili e le visioni della vita. Io credo che tu abbia trasferito in musica lo stesso pensiero: di che cosa ha bisogno la musica “complessa” per far riaffiorare le sue qualità?
SM: Se la cosiddetta complessità si manifesta in forme quantitativo/numeriche allora per quel che mi riguarda essa non ha significato, è un astrattismo. Un certo tipo di analisi musicale “a posteriori” vanifica i rapporti qualitativi e vitali della composizione: credo si debba trarre dai grandi Maestri della Musica principi che escano da qualsiasi tempo e qualsiasi soggettivismo per poi renderli attraverso un onesto lavoro personale, su quello si può basare una certa fiducia.
EG: Andiamo alla radice filosofica degli Incanti. Tutto viene condensato in una struttura artigianale che è conseguenza di un processo conoscitivo che trae origine da correlazioni con la natura e la creatività umana. Mi chiedo, dunque, qual è la genesi dei tuoi Incanti?
SM: Propongo un semplice esercizio contemplativo tratto dall’osservazione della natura, del suo procedere, ma anche dal riscontro che i grandi maestri avessero in loro l’essenza di tale procedere.
Immaginare:
-un seme;
-che sia interrato;
-che germini trovando sostentamento e sostegno nella Terra attraverso la radichetta;
-attraverso l’azione del Sole che inizi a protendersi verso l’alto, generando la parte aerea;
-che si sviluppino radici solide, gambo, derivazioni, foglie, gemme, fiori e che questi vengano fecondati;
-che i fiori quindi appassiscano e contemporaneamente aumentino le foglie col loro carico di
verde, vettore di un massimo apporto energetico;
-che si formi il frutto con in grembo il nuovo seme;
-che l’azione vivificante del Sole porti alla maturazione;
-che il ciclo possa iniziare nuovamente.
Immaginando in sintesi tutto ciò, quello che rimane è questa forza in divenire che dal seme cresce la pianta, che genera tutte le sue meravigliose relazioni (si pensi alla saggezza che lega luce solare, clorofilla ed anidride carbonica), sostanze e densità, che reca in sé un’architettura vivente con le sue forme che si generano le une dalle altre attraverso continue metamorfosi:
il seme è la pianta, la pianta è nel seme.
Una composizione che metta in atto questo genere di forze, relazioni, strutture e trasmutazioni avrebbe in sé la peculiarità del vivente: ciò che induce all’incanto, alla sottile meraviglia, alla contemplazione interiore.
Quello che appare sulla partitura e che viene vivificato dai musicisti è la veste, la tunica risonante che dà presenza all’etereo.
Non è possibile dar misura al presente col passato, così come avanzare nel presente senza conoscenza profonda di ciò che è nell’essenza rimasto: sarebbe grottesco e mortificante rimanere sempre radice, ma anche pensare di germogliare staccandosi da essa.
[Dopo questo nuovo “incanto”, un difficile congedo con il compositore mi aspetta: sono naturalmente portato a pensare che con Movio la musica classica ha toccato un vertice in ciò che può essere una costruzione completa, dove ogni nota singolarmente e il loro combinarsi sono funzioni di una creatività incredibilmente immersa in una vitalità dell’immagine sospensiva].