Una delle contraddizioni della musica dei Wilco è la lunghezza dei brani: alquanto riscontrabile nella pratica, le canzoni più lunghe sono anche le più ispirate; ed in quello spazio di tempo il gruppo di alternative country più in voga del mondo ha cercato quelle novità di cui aveva bisogno il country americano. Rileggere la musica americana aggiungendovi il pop beatlesiano e tracce di garage-rock era un prerogativa comune a tutti i gruppi di rock e certamente non può essere elevata a rango di fattore di originalità, ma l’introduzione (spesso anche in maniera leggiadra) dell’elettronica e di una musicalità da jam session non antica o vincolata al modello Neil Young anni settanta (vedi le collaborazioni con compositori come Jay Bennett e Jim O’Rourke, o l’introduzione nel gruppo di un chitarrista d’avanguardia come Nels Cline) hanno saputo dargli una propria caratterizzazione tra melodia “depressa” e modernità musicale.
I primi tre albums dei Wilco (quello soprattutto delle songs da tre/quattro minuti di cui si diceva prima) viaggiavano ancora nell’area del country: acustico ma noioso il primo “AM“, più robusto ed arroccato il secondo, doppio “Being there” dove il rifacimento in chiave depressa delle radici musicali (Parson, Young, Beatles, Rolling Stones) riusciva a trovare già una buona compensazione (specie nei brani più elaborati a tipo jam); decisamente “pop” e derivativo il terzo “Summerteeth“.
La svolta arriva con “Yankee Hotel Foxtrot” che eleva decisamente il numero e la qualità degli arrangiamenti e della produzione dei suoni: il canto senza forza di Jeff Tweedy si inserisce in una serie di artifici musicali aderenti alle nuove discipline che provengono dall’elettronica trasposta nel rock: noise, riverbero ed effetti programmati riempiono gli spazi strumentali anch’essi ben costruiti. Questo lavoro rappresenta un punto di partenza per gli sviluppi di un country “moderno” sul quale era quasi un sacrilegio intervenire al di fuori degli strumenti tradizionali. E’ un country futuristico, di un’altra dimensione, glaciale o surreale a seconda dei casi, ma senza dubbio un miglioramento di quel genere.
Il successivo “A ghost is born” viene programmato interamente da Tweedy con il software Pro Tools, sebbene poi viene fatto suonare alla band completata dall’inserimento di Jim O’Rourke alla chitarra ed altri strumenti; in ossequio al principio prima citato della dilatazione dei brani qui quest’aspetto troverà la sua piena realizzazione nelle due jams “Spiders (Kidsmoke)” di oltre 10 minuti e “Less than you think” di circa quindici; quest’ultimo può considerarsi il brano più sperimentale del gruppo fino a quel momento con la spettrale introduzione/coda di particolarità sonico/concrete; comunque, se “Yankee Hotel Foxtrot” aveva maggiore fantasia nell’arrangiamento, “A ghost is born” è più accentrato nella costruzione delle armonie e degli assoli agli strumenti; Tweedy matura anche nella composizione che acquista una piena aderenza alla musica suonata, rintanandosi spesso in una melodicità molto più attraente del passato. Quest’ultima circostanza sarà ancora più visibile nel successivo “Sky blue Sky” registrato con Nels Cline che regala al gruppo alcuni personali assoli di chitarra, ma allo stesso tempo però si libera da altri sperimentalismi. L’album chiude probabilmente la trilogia migliore dei Wilco e sancisce un perfetto rapporto tra testi e ricerca melodica. I successivi “Wilco” ed il recentissimo “The whole love” si muovono nella linea di “Sky blue Sky” senza avere però quell’omogeneità tale per poterci competere: tre o quattro canzoni da preferire in un lavoro è qualcosa che non è lecito aspettarsi da un gruppo come loro: la cosa preoccupante è una specie di inconscio ritorno al passato che mette da parte le evoluzioni intelligenti che la loro musica stava attraversando.