La “Drone music” è esistita da sempre: più che un nuovo genere musicale, si potrebbe affermare che sia solo un’attitudine. In materia esiste una teoria dotata di un forte carattere di spiritualità, poichè parte dalla considerazione che il drone sia il primordiale respiro di Dio, proiettandosi nella storia e nel tempo dei suoni; le stesse inflessioni del canto monodico o gli accordi polifonici “sostenuti” nel medioevo, la tipologia di intonazione “barocca” agli strumenti, ne sono continuazione. Se ci trasferiamo nell’orientalità non si può fare a meno di pensare alla musica indiana (carnatica e non) e alla cultura “classica” giapponese (alcune forme percussionistiche e i canti in gagaku). Il novecento intellettuale è stato il secolo in cui gli si è dato un processo di riconoscimento come elemento a sè stante e soprattutto è stato un movimento come il “minimalismo” americano a dargli un sbocco quasi naturale, sia per idee che per essenza musicale. L’elettronica, comunque, ha permesso di compiere un ulteriore passo nella creazione di “droni” che non provenivano più da strumenti acustici, ma da strumenti processati. In tal senso l’opera di Brian Eno fu fondamentale al riguardo; oggi è soprattutto a questa creazione “manipolata” che si rivolge il termine dronistico, con una serie di gruppi (provenienti da generi collaterali imparentati con l’elettronica) che ne hanno scritto una pagina ufficiale. Tra questi è nato un vero e proprio approfondimento nello sviluppare questi suoni e si è aperto un campo di ricerca di tipo timbrico che in verità è difficile da affrontare. Una delle espressioni massime odierne di questa ricerca viene da Austin (città tipicamente votata al country) e sono gli Stars of the Lid di Brian McBride e Adam Wiltzie: nettamente concentrati sui suoni da produrre, la loro purezza strumentale emergerà da “The ballasteed Orchestra” esordio su Kranky del 1996 in cui una sapiente scrittura dronistica viene ricomposta in più strutture ripetitive che si intersecano tra loro, eliminando lo spiacevole incomodo dell’etereo noioso e avvicinando l’esperienza musicale alle avventure ambientali/cosmiche di molti loro predecessori. Quello fu anche il momento della svolta in favore di droni che potessero incorporare elementi “melodici”, teoria che trovò in “Tired sounds of Stars of the lid” la loro migliore espressione: con quel disco del 2001, i due americani riuscirono a provare come fosse possibile incollare al drone un carico di storia ed espressività mai pensata prima: quella modalità di mandare in circolo nel brano frammenti melodici costruiti in maniera diversa sottintende immagini e paesaggi in movimento solo nel nostro pensiero, ma la musica aveva anche una propria impronta stilistica.
“A winged victory for the sullen“, la collaborazione di Wiltzie con Dustin O’Halloran, pianista tra la moderna classica e la new age (vedi mio post precedente) non è altro che una somma di parti: un lavoro valido ma anche scontato. Fa venire in mente il dubbio che è insito nelle possibilità di sviluppo di una musica rischiosa nell’esplorazione tanto quanto i lavori di ricerca delle avanguardie musicali.