Oggi è difficile trovare originalità nell’ambito del jazz, e certamente il violoncello è uno degli strumenti che più soffre della necessità di rivolgersi al passato. Quando poi si passa alla musica classica e in particolare a quella moderna la caratterizzazione diviene ancora più difficile: la coreana Okkyung Lee sta provando a sorpassare il problema unendo alla formazione strumentale una forte componente nella partitura: scoperta da Zorn nell’ambito delle sue proposte orientali, la Lee fa parte di quelle compositrici che inglobano all’interno della loro musica tutte le loro influenze in maniera sintetica: l’austerità classica, le influenze di quella coreana, la passione per gli impasti timbrici, le interazioni con l’elettronica, l’improvvisazione jazz. Okkyung Lee viene recensita in quasi tutti i magazine di jazz, ma qui il jazz è in pillole quasi invisibili: più che di jazz, dovremmo parlare di aspetti che l’avvicinano a quel puzzle di modernità che è proprio della fase di multistilismo che la musica attuale sta attraversando e il rischio potrebbe essere quello di trovarsi di fronte ad esperimenti già acclarati, a versioni di pregevole anonimato o magari anche ad insopportabili incursioni nel rumore fine a sè stesso; nonostante il nuovo lavoro parli di “canzoni rumorose”, Okkyung Lee non è nulla di questo: suona benissimo il suo strumento con una splendida condivisione con i partners, ma soprattutto è una vera compositrice, a tratti irresistibile, che sfoggia accanto al consapevole incrocio tra classica moderna e improvvisazione free jazz, una sapienza nella costruzione che gli permette di emergere dalla media: se la collaborazione con Peter Evans e Steve Beresford in “Check for monsters” è probabilmente l’unica testimonianza dei suoi respiri jazzistici, i due albums pubblicati dalla Tzadik rappresentano il suo status musicale: “Noisy love songs” inizia dove era terminato “Nihm” alzando ancor di più il tiro verso una più calzante comunicazione sonora: la sua musica è vissuta, misteriosa e a tratti inquietante, ma possiede quegli elementi che la rendono peculiare: quando la musicista riesce a definire ancor meglio i suoi tratti stilistici, ordinando nello stesso brano orientalità, ricerca timbrica e slancio strumentale, dà vita a dei meravigliosi passaggi sonori (vedi “One hundred years old rain” o “Bodies“) e in questo tentativo l’ensemble dei musicisti al suo fianco gioca un fondamentale risultato di squadra unita allo scopo (notevole il lavoro di Cornelius Dufallo al violino, Satoshi Takeishi alle percussioni e Craig Taborn al piano, ma utile anche quello di Evans e Tordini).