Stefano Leonardi e Antonio Bertoni: Viandes

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Per Viandes, collaborazione tra Stefano Leonardi e Antonio Bertoni, ebbi l’incarico di scrivere le liner notes nel momento in cui i due musicisti avevano avuto garanzia della pubblicazione su Astral Spirits R.: a distanza di quasi due anni il lavoro è finalmente apparso nella sua forma concreta ma le mie note non hanno avuto spazio. Prescindendo da qualsiasi motivazione giustificatrice di tale assenza, ho pensato che fosse necessario parlarne immediatamente alla luce dei valori espressi: qui di seguito i lettori potranno trovarle assieme ad un commento tecnico sulla strumentazione utilizzata, fatto da Leonardi stesso, che qui ringrazio.

Su Viandes ho scritto:
Una delle migliori prospettive con cui assaporare l’esistenza umana ci fu fornita da Jacques Attali, quando dichiarò che il mondo non andava guardato o letto, ma ascoltato. Negli ultimi cent’anni la propensione di molti progetti culturali è stata quella di verificare i “suoni” del mondo, andando oltre gli strumenti musicali, traendo giovamento dalle incredibili qualità acustiche che la natura ci ha consegnato già molto tempo fa: pietre, conchiglie, selci o rudimentali flauti antichi sono in grado non solo di tracciare un percorso aurale, ossia determinare la nostra posizione geografica d’ascolto, ma sono capaci anche di fornire suoni particolarissimi, che fanno invidia a qualsiasi sperimentatore o costruttore di suoni.
Quanto può essere opportuno guardare al passato e ai suoni antichi? Tantissimo. Posto che qualsiasi avanzamento delle tecniche non potrà scalfire il significato simbolico attribuito alla musica da una comunità, la sfida sta nel saper trarre il massimo risultato nella messa in relazione di pratiche sonore distanziate in maniera apocalittica nel tempo. E’ un qualcosa che si fonda anche sul rispetto degli uomini e dei loro concetti di vita: oggi, di fronte al dilagare dello schiavismo musicale che ci perseguita, è la stessa scienza che sta chiedendo aiuto alle arti, un sostentamento ideologico utile per affrontare verità che si nascondono nella forza della musica, talora smaltita in pratiche tribali o in riti circostanziali.
Il disegno di Viandes, svolto dai musicisti Stefano Leonardi e Antonio Bertoni, plana pesantemente in un campo indesiderato dalla società del consumo, allo stesso modo con cui oggi i visitatori di una grotta paleolitica guardano con diffidenza ai posti e alle abitudini dei loro predecessori: il controllo e la vanità degli atteggiamenti hanno superato qualsiasi volontà di ripristinare un canale aperto verso quello che non è apparentemente visibile. L’idea di Viandes è di riappropriarsi di una comunicazione che sta attraverso l’inanimato, opportunamente sollecitato: improvvisazioni (quelle di oggi come quelle di tanto tempo fa) lavorate su strumenti tradizionali di una parte del mondo o su strumenti preparati in maniera tale da cogliere un costante riferimento ad un’implicita materialità oggettiva, come volontà di rappresentare il senso musicale del passato e di sviluppare una sensibilità tattile della musica. E’ un’officina della conoscenza che si produce tra i due musicisti: da una parte, Leonardi si immerge in una serie di stratificazioni temporali e geografiche collegabili alle espirazioni: dallo xun (un’antichissimo flauto globulare cinese) al dilli kaval (un flauto in legno dell’Anatolia), dai flauti traversi alle “pipe” sarde (le launeddas, svincolate nelle sue tre parti, e il silittu, un desueto flauto in legno di sambuco); dall’altra Bertoni regge le leggi dell’attrito, dividendosi tra il guimbri  (strumento a corde tradizionale del Gnawa) e il violoncello, preparati e suonati per vivere un’esperienza carnale dello sfregamento. La materia del “soffiare” e la materia del “maneggiare”, intese come principali responsabili della creazione musicale, si incontrano per una rara sessione di bellezza e simulazione strumentale, di energia e di istinti, capace di farci vivere le esondazioni dei suoni, la pietra ruvida (manovre di avvicinamento alle cave antiche o alla pavimentazione di una nostra strada urbana) o l’operosità di una comunità. Sono esperimenti dell’improvvisazione di altissimo profilo, a cui tutti dovremmo dar seguito, affidandoci a ciò che si presenta come un “upside down” temporale del materiale sonoro. In due parole, apologia del futuro in difesa della musica.

Qui riporto l’intervento di Stefano Leonardi
SL: Abbiamo improvvisato partendo da alcune prove in duo e lavorato in modo spontaneo sulle combinazioni sonore, con rimandi a musiche “etniche” ma trattate più da un punto di vista dell’energia e dell’istinto che di strutture sonore. Si tratta di piccoli elementi formali che ci sembrava funzionassero per lo sviluppo della musica.
Antonio suona il guimbri su due brani (uno con archetto) e il violoncello sugli altri usando diverse preparazioni, mentre io suono, oltre al flauto traverso, diversi flauti etnici.
Per quanto riguarda questi strumenti vi invito a prestare attenzione preventivamente ad alcuni elementi: così come il flauto traverso ha ancora immense possibilità esplorative, così anche i flauti che provengono da altre culture (solitamente etichettati con il brutto termine “etnici”) aprono a nuovi orizzonti, non solo puramente coloristici o timbrici. Non importa quale strumento scelgo o da dove provenga, mi piace l’intonazione “selvaggia”, da impiegare nel contesto opportuno.
I flauti a becco detti “Pipiolus” e “Sulittus”, “Benas” e “Launeddas” sono gli aerofoni più importanti e originali della tradizione musicale sarda. Mi sono innamorato di quei “suoni che ti entrano nell’anima” frequentando la Sardegna (sagre, feste religiose, costruttori), una folgorazione!
Ho ascoltato questi strumenti nella loro identità d’origine, ma li uso ovviamente in una prospettiva diversa, cercando di scindere quella che è la componente tradizionale del folklore e quella tecnico-strumentale. La tecnica tradizionale e il bagaglio culturale di certe aree geografiche è tutt’altra cosa, entra in gioco un aspetto prettamente etnico. Le “Launeddas” sono indubbiamente lo strumento più antico e originale della tradizione musicale sarda: appartenenti alla stessa famiglia dei clarinetti egizi, degli “auloi” greci e delle “tibiae” romane, le launeddas sono composte essenzialmente da tre tubi di canna comune di differente diametro, spessore e lunghezza, due legati ed uno sciolto. Le due canne legate, che formano “sa croba”, o “loba”, prendono il nome di “tumbu” (canna del bordone, senza fori per le dita) e “mancosa”, quella sciolta è chiamata “mancosedda”. Su ciascuna di esse si innesta “su cabizzinu” o “launedda”, una canna sottile su cui viene escissa l’ancia. Un pezzetto di cera vergine posto sopra l’estremità libera dell’ancia permette di regolarne la frequenza delle vibrazioni, modificando l’altezza del suono.
Utilizzo anche un particolare “Sulittu”, un lungo flauto a becco in legno di sambuco che un tempo era associato ad un tamburino e si suonava in simultanea, ormai in disuso. Ha un canneggio stretto e lungo che consente la realizzazione di numerosi suoni armonici e ha un suo sottile.
Il “Dilli Kaval” turco invece è un flauto di origini molto antiche suonato prevalentemente dai pastori con la respirazione circolare ed ha una voce interiore unica, a tratti inquietante.
Lo “Xun” è un flauto globulare (non ha una struttura a tubo aperto) cinese dalla storia ancor più antica, una specie di ocarina a forma d’uovo in argilla viola di Yixing dal suono misterioso, rotondo.

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.