Quando si ascoltano dischi come questo “Ravedeath 1972” non si può fare a meno di “pensare” durante l’ascolto: le caratteristiche della sua musica sono tali per cui il pensiero o si fonde oppure ci porta inevitabilmente a qualcosa di colossale, ad opere senza misura dove le barriere spazio-temporali sembrano evanescenti. Hecker, musicista laureato in psico-acustica, assieme a qualche altro (Christian Fennesz o Loscil di cui vi ho già parlato in precedenti post) ha la capacità di rendere rarefatta la sua musica ma al tempo stesso la rende piena di sfumature; si parla di ambient music ma nell’accezione di Eno la musica dovrebbe avere un effetto anche rilassante; qui invece si assiste al contrario, vi è una tensione che sembra appartenere alle avventure “cosmiche” che videro predominare il movimento tedesco dell’elettronica di Schulze, Tangerine Dream, Popol Vuh etc, come uno dei momenti intellettualmente più alti della musica rock. Quindi il suo merito sta proprio nell’avere coniugato l’intelligenza sonora di quel canovaccio con le moderne possibilità offerte dalla tecnologia; per raggiungere lo scopo, Hecker si serve di una miscela fatta di elettronica rielaborata e nettamente misurata in registrazione, quasi completamente dronistica, con accenti a volte più solari ed altri più oscuri, con utilizzo del tipico fruscio rumoristico. “Radio Amor” costruì uno dei più validi puzzle sonori moderni tendenti alla costruzione di un progetto musicale che attraverso la musica cercava una subliminalità nella tematica umana: un’opera di un vero compositore di musica classica trascinato nell’elettronica e nei suoi derivati; ispirato dalla permanenza in barca sulle coste dell’Honduras, Hecker attraversa le fasi della sua vita componendo una specie di musica del “ricordo”, cartoline animate in bianco e nero che tanto vanno di moda oggi. La sua discografia si basa essenzialmente su questa sensibilità spesso difficile da decifrare con altre prove mature tra cui spicca il “paesaggio immaginario” del 2009. “Ravedeath 1972“, che lancia segnali molto spesso isolazionisti, contiene due suite di alto livello, quella in tre parti di “In the fog” dove il musicista canadese utilizza un organo a canne campionato da una chiesa islandese per incarnare il sogno di un Bach attuale e del modo con cui si confronterebbe con i nostri tempi, e quella in due parti di “Hatred of Music” sempre con l’organo in evidenza, spostata leggermente sul versante progressive/cosmico come accennavo prima. Qualcuno critica questa tipologia di artisti facendoli confluire in quelli che potrebbero regalarci l’ultima colonna sonora dei tempi, ma queste personali sottigliezze sono perennemente destinate a cadere davanti ad un musicista così preparato nel suo genere.
Discografica consigliata:
-Haunt me haunt me do it again, Alien8, 2001
-Radio Amor, Mille Plateaux/Alien8, 2003
-Harmony in Ultraviolet, Kranky 2006
-An Imaginary Country, Kranky 2009