Bill Evans

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Source I made a photo ca. 1969, Author Fauban, Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 License., no change was made

 

Sebbene il pianista Bill Evans venga considerato uno dei musicisti jazz più influenti della storia, molti avventori non ne comprendono la portata musicale: nelle varie biografie o interventi di autori di pubblicazioni tese alla celebrazione del suo percorso artistico o anche in quei retaggi più poveri ricavati da siti internet (per articoli a lui dedicati), vengono ricalcate gli aspetti “decorativi” della sua musica e meno quelli “artistici”: più musicista e meno compositore. Evans non sarà ricordato solamente perché capitò nel momento giusto della storia del jazz, storia che si divideva tra esplorazioni avanguardistiche e recuperi riorganizzati della progressione stilistica jazz, ma soprattutto per aver dato modo al genere di raggiungere un pubblico più vasto con un linguaggio più diretto, semplice nell’ascolto, spogliato di orpelli e di qualsiasi banalità, teso alla ricerca di uno spirito musicale “positivo”.

Dopo gli esordi profondamente immersi in una nuova caratterizzazione del be bop a prova di quei tempi (inizio anni sessanta), Evans espresse le conoscenze acquisite per via di un’ottima preparazione classica, capendo che era possibile riprodurre nel jazz lo stesso sentimentalismo che i musicisti romantici e impressionisti avevano profuso nella musica colta, adoperandosi per una sorta di ribaltamento della fusione tra i due generi: non era più la classica che “conteneva” il jazz come nel primo novecento, ma il contrario; gli accordi e le armonizzazioni erano jazz, soprattutto di tipo modale, mentre l’improvvisazione ricalcava la melodia classica, specie quella di Chopin e Debussy. E’ ad Evans, poi, che si deve attribuire la paternità di una nuova concezione del trio nel jazz, l’inizio di un’era delle interazioni tra piano, contrabbasso e batteria (il trio storico con Scott la Faro e il favoloso drumming di Paul Motian), in un nuovo clima “confidenziale”, non “lounge” così come l’artista si preoccupava di non fornire nei suoi dischi e soprattutto nei concerti, una sorta di dialogo in cui ogni strumentista in maniera democratica e raffinata poteva esprimere il suo potenziale.

Il periodo iniziale della sua carriera comprenderà già diversi episodi che lo inseriranno immediatamente tra i migliori esponenti del jazz, ove però gli umori e i pensieri irradiavano felicità e compiacimento artistico, caratteristica che verrà man mano smussata nella parte finale della carriera, quando prenderanno vigore gli aspetti più drammatici e catartici. Molto di quello che si sente oggi nel jazz e nella musica in generale, rimanda a quel trio storico, spesso in un processo di imitazione che non fa altro che stabilizzare la funzione musicale di Evans. L’artista americano, sfortunato protagonista di una vita infelice per molti aspetti, era di una serietà invidiabile sul lavoro e fu varie volte snobbato dalla critica che non riteneva importanti i suoi cambiamenti: il commento sfavorevole maggiore veniva dalla considerazione che Evans aveva solo migliorato le velleità artistiche dei maggiori compositori di standards americani e che mancava di un repertorio personale: ma queste critiche furono destinate a cadere quando si capì che Evans era riuscito nell’intento, direi solitario, di usare temi di altri con una capacità di personalizzazione che andava molto ben oltre il concetto di riproposizione dello standard; poi, negli ultimi dieci anni della carriera, fece contenti anche i cultori della “composizione”, poiché il suo sound si arricchì sempre più di episodi frutto della sua inventiva, delle sue vicissitudini personali (purtroppo tragiche), aumentando in maniera considerevole l’apporto “emotivo” del trio, ma nonostante questo una parte della critica continuò a trascurarlo: il suo momento migliore fu purtroppo anche il suo canto del cigno, con “You must believe in spring” (con il trio Gomez-Zigmund), un album pubblicato postumo alla sua morte, che rappresentò l’esempio lampante del punto in cui era arrivato Evans. L’interplay tra i musicisti aveva raggiunto livelli di intensità e di valenza artistica incredibili e come succede in molte altre occasioni, quando il musicista sfodera il suo capolavoro nella difficoltà personale, Evans firmò probabilmente il suo capolavoro, nonché uno dei must della musica in generale, in un clima arroventato nell’animo per la scomparsa delle persone care nonché, penso, di quella sciagurata vita personale, che era magnifica correttezza nei rapporti esterni e “droga” all’interno.

Oggi, a trent’anni dalla sua morte, il suo gesto artistico, il suo esempio di musicista aperto, sempre attento a comunicare il suo stato, rimane insuperato nelle nuove generazioni, ma soprattutto quello che rimane è quel modo di suonare perennemente in bilico tra il corso pianistico dell’ottocento e quello del jazz moderno e tipicamente americano del novecento, qualcosa che gli ha procurato un posto di eccellenza nell’olimpo della musica di tutti i tempi.

Discografia consigliata:
In Trio:
-Everybody digs Bill Evans, Riverside 1958 (con Sam Jones e Philly Joe Jones)
-Sunday at Village Vanguard, Riverside 1961 (trio storico)
-Explorations, Riverside 1961 (trio storico)
-Waltz for Debby, Riverside 1961 (trio storico)
-Moonbeams, Riverside 1962 (con Chuck Israels al cb e Motian)
-You must believe in spring, Warner 1977, pubblicato nel 1980 (con Gomez e Zigmund)
-Paris Concert, Elektra 1979 (con Johnson e LaBarbera)

Solo al piano:
-Conversation with Myself, Verve 1963
-Further conversation with myself, Verve 1967
-Alone Again, Fantasy 1975
-New Conversation, Warner 1978

In duo:
-Undercurrent, United Artist 1962 (con Jim Hall)
-Intuition, Fantasy 1974 (in duo con E.Gomez)
-I will say goodbye, Fantasy 1977

In quintetto:
-Quintessence, Fantasy 1976 (con Harold Land, Kenny Burrell, Ray Brown, P.J.Jones)
-We will meet again, Warner 1979 (con Harrell, Schneider, Johnson, Zigmund)

Collaborazioni principali:
con George Russell:
-The jazz workshop, 1956/New York, N.Y., 1959/Jazz in a space age, 1960
Con Chet Baker:
-Chet, 1959
Con John Lewis:
-Jazz Abstractions, 1960, with Gunther Schuller & Jim Hall
Con Oliver Nelson:
-The blues and abstract truth, 1961

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.