David S. Ware può essere considerato uno dei maggiori discepoli del Coltrane post “Meditations”, ossia quello del periodo free: Ware, che ha cominciato la sua carriera suonando nei gruppi di A. Cyrille e C. Taylor, intraprese il percorso da solista nell’album “Passage to music” nel 1988, che lo proiettò immediatamente nel gotha dei sassofonisti tenore che contano, mettendo in luce le sue straordinarie qualità tecniche: un fraseggio derivato da Coltrane, ma anche una forte autonomia stilistica, che si rivela in una padronanza mostruosa dello strumento e nella capacità di “scalare” continuamente il sassofono con uno stile perfettamente legato che esprime “ansietà” e spesso “parossismo”, con personali e meravigliosi acuti che hanno precise coordinate “emozionali” da comunicare; in quegli anni grazie a lui il free jazz ebbe una vigorosa ripresa di interesse, resa anche più credibile dall’episodio di “Flight of I” dove Ware esalta le sue capacità inserendole (con una straordinaria bellezza di mediazione) sovente in un contesto più melodico e che ci consegna un eccezionale improvvisatore dei tempi moderni (molti critici ritengono che sia il suo capolavoro). Ware, grazie anche all’apporto quasi costante di strumentisti di elevato livello che condividono i suoi progetti musicali (il pianista Matthew Shipp e il contrabbassista William Parker in specie) per molti anni costruisce la sua personale visione di sperimentatore “free” nei canoni lasciati dal suo maestro Coltrane, approfondendone il contenuto con lunghe e libere “jams” perfettamente in linea con un free tradizionale che si esprime nella parte ritmica attraverso velati sotterfugi di bop, modale e blues, ma alla ricerca di note e combinazioni sonore estreme, che grazie al suo modo di suonare veloce ed incalzante, spesso fanno sobbalzare l’ascoltatore di fronte alla precisione e alla potenza polmonare dell’artista. Dai dischi citati fino a “Dao” il sassofonista americano si esprime su tematiche di netto stampo free; in “Wisdom of uncertainty” e “Godspelized” si proietta su un versante più blues-oriented; “Corridors & Parallels” e “Threads” sono i migliori esempi di un Ware compositore di jazz al confine con l’avanguardia classica: con questi episodi, se da un lato sfuma lievemente il suo solismo, dall’altra le composizioni, forti di un quartetto in cui Shipp e Parker acquistano più spazio, acquistano un’ affascinante e misteriosa autonomia; in “Threads” l’organico viene completato dal violinista microtonale Mat Maneri e dall’elettronico D.B.Roumain. Dopo qualche anno di sbandamento dovuto purtroppo anche a problemi di salute, Ware è tornato con una rinnovata ed intensa attività discografica che riaggancia senza grandi novità gli umori musicali della prima parte della carriera: “Shakti” in particolare si rivela un bell’episodio, che forse per la prima volta rivela una certa riflessione artistica, mentre “Onecept” recupera il miglior Ware allo strumento, sebbene il sound vagamente astratto del suo trio mitighi la forza espressiva dirompente di questo straordinario tenore di colore.