Da molti definito come il miglior compositore classico vivente, Steve Reich fa parte di quella corrente dei “minimalisti” che ha inventato il genere negli anni sessanta: noto per la sua tecnica di “phasing”, Reich ha avuto una carriera che gradualmente è passata dall’esecuzione di quella primordiale ed essenziale idea musicale ad un atterraggio in un più equilibrato minimalismo strumentale. Gli esordi di Reich possono paragonarsi per la “forza” psicologica della proposta musicale ad alcuni episodi di John Cage: come quest’ultimo inventò il silenzio scioccante di 4’33”, Reich presentò quella lunga versione di “It’s gonna rain” che proponeva un sorprendente reiterazione di una frase di un prete di colore, colto in un nastro durante un sermone: il “phasing”, inteso come sfasamento temporale tra due strumenti o voci che poi gradatamente si riallineano e che possono avere come base uno o più combinazioni musicali uguali o anche diverse, è stato il suo biglietto da visita che lo ha accompagnato per molti anni della sua carriera: dall’episodio citato prima fino a “Music for 18 musicians”, Reich aveva forgiato un suo stile, riconoscibile, che faceva delle evoluzioni della tecnica citata il suo marchio personale; gli esperimenti cominciarono con i nastri e le loro manipolazioni, poi proseguirono con gli strumenti e poi ancora con le voci e i clapping; si può affermare che questi anni lo impongono all’attenzione mondiale per la novità della proposta musicale e consacrano inderogabilmente il compositore nel periodo rivelatorio del minimalismo americano. Da “Music for 18 musicians” Reich cercò di fare un passo in avanti, dato che era necessario trovare una modifica ad una formula che di per sé poteva andare incontro ad obsolescenza ed una soluzione fu quella di cominciare a comporre per larghi ensembles e con moltiplicazione degli strumenti, cercando nel contempo di piegare il suo pensiero musicale in un ambito più melodico e ritmico, elementi sui quali si stavano concentrando i suoi studi: fu operazione altrettanto riuscita, anche se per molti significò una perdita di caratterizzazione rispetto al primo periodo, di quella novità indisponente sbattuta in faccia alla platea più integerrima della musica contemporanea.
Reich, in tal modo, acquisì un nuovo standard sempre navigando nei piani alti del livello strumentale, dando pienamente sfogo a prerogative compositive che non era possibile portare avanti solo con il “phasing”: gli unici ritorni di fiamma verso la sua tecnica furono i contrappunti di “Vermont”, “New York” e quello chitarristico, dove chiamò a collaborare Pat Metheny. Nella carriera di Reich fa specie l’episodio discografico di “The desert”, che rappresenta probabilmente il miglior tentativo di esprimere la sua verve compositiva al di fuori dei soliti cliché usati, grazie ad un uso evocativo della coralità sinfonica e della strumentazione di supporto, in definitiva un magnifico e coinvolgente esempio di rappresentazione espressiva sul tema della desertificazione conseguente ad un incidente nucleare.
Il musicista di quest’ultimo decennio ha tentato anche nuove strade nell’organizzazione vocale, dando certamente un contributo al genere grazie all’inserimento di elementi medievali e orientali nella struttura minimale; così anche nel teatro multimediale, con le operazioni di “The cave” e “Three Tales”, perfetti bilanciamenti di quello spostamento partorito in seno a quei lavori più in linea con un minimalismo “addolcito”, fatto di trame armoniche e melodiche utili per colpire più a fondo il gusto popolare e che gli hanno permesso di vincere lo scorso anno il Pulitzer Price. Molto probabilmente questi orientamenti costituiranno le coordinate di fondo della sua musica futura.
“Double Sextet/2×5” contiene la composizione vincente del Pulitzer Price 2009, in cui un sestetto composto da flauto, clarinetto, violino, violoncello, vibrafono e piano si fronteggia con un’identica versione registrata a nastro, come già successe con le serie “Counterpoint” e con i lavori per violino “Violin Phase” e “Different trains”; “2×5” è suonata dai Bang on a Can, importante gruppo aperto addentrato nelle reinterpretazioni di brani di stile “minimalistico”, impiegando chitarre e bassi elettrici, batteria e piano; si vira, quindi, in un più ampio e pericoloso raggio d’azione dello stile.
Discografia consigliata:
-Phase Patterns; Pendulum Music; Piano Phase; Four Organs, Wergo 1994 (registr. primo periodo) -Drumming/Six Pianos/Music For Mallet Instruments, Deutsche Gramophone, 1974
-Music for 18 musicians, Ecm 1978
-Octet/Music for large ensemble, Violin Phase, Ecm 1980
-The desert music, Nonesuch 1985
-Different trains/Electric counterpoint, Ecm 1989
-The cave, Nonesuch 1996
-You are (variations), Nonesuch 2006
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