La seconda ondata di minimalisti formata dai musicisti nati intorno agli anni sessanta, si è manifestata in forme diverse da quella dei progenitori: si è assistito ad un naturale riequilibrio tra generi, all’inserimento di nuovi elementi nelle forme più tradizionali, sono cominciati quegli incroci che hanno costituito naturale evoluzione di quello stile d’avanguardia; se nel continente americano i compositori hanno pensato ad irrobustirlo o a fonderlo con la musica ambientale, in Europa la tendenza è stata quella di miscelarlo nella tradizione classica; tuttavia le istanze progressiste non sono solo arrivate da compositori che operavano nella musica colta, ma anche da musicisti con preparazione jazzistica. E’ il caso dei due gruppi che rappresentano probabilmente le più lungimiranti espressioni che il jazz abbia riscontrato in questi ultimi vent’anni assieme all’altrettanto valido movimento del nu-jazz, movimenti non perfettamente valutati dalla stampa, anche quella accreditata.
Il pianista svizzero Nik Bartsch e il suo ensemble Ronin costituiscono una delle frange più evolute del sound della ECM Records. Qualche tempo fa, leggendo una recensione di un suo disco, l’autore inglese lo definì come un musicista compendio di musica classica verso funk; la realtà invero è dibattuta perché Bartsch viene costantemente inserito nel settore jazz, pur avendo un background musicale molto più nutrito: il suo pianismo è minimale (nel senso della ripetizione di gruppi di note), è costruito in moduli (tutti i brani vengono presentati ed intitolati con la sigla Modul + numero) nel rispetto di una programmazione per gradi della costruzione sonora che potrebbe avere il dono della interscambiabilità; gran parte dell’affascinante e misterioso sound che ne fuoriesce è supportato da un basso ed una batteria realmente funk (nel suo ultimo cd vi è anche l’apporto di un sax che segue in maniera costante il programma musicale); sprazzi di queste combinazioni di suoni modulari risentono di controtempi jazzistici, ma in realtà l’improvvisazione (almeno quella canonica) è quasi totalmente assente o meglio è imbottigliata nei “moduli”. Comunque sia, prima di lui, un altro gruppo giù utilizzava lo stesso metodo di composizione: sono gli australiani The Necks composti da Chris Abrahams (piano), Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (contrabbasso), che seppur con variabili musicali diverse, specie nella lunghezza dei brani e nelle interazioni con gli altri strumentisti (la batteria non è funk e il basso elettrico è sostituito da un contrabbasso), condividevano con i Ronin lo stesso risultato: molti critici ritengono che questo eclettico maquillage che attinge agli umori dei generi musicali principali prendendone alla fine solo la radice e che sostituisce al virtuosismo costruito sulla variabilità delle note del pentagramma, un virtuosismo basato sulla intensa ripetibilità di un patterns di note musicali, sia una delle strade future della musica e non si può negare che questo atteggiamento musicale sia anche “emotivamente” accattivante.
I Necks possono considerarsi un gruppo a se stante con una discografia già cospicua che può e deve essere letta globalmente: già l’esordio con “Sex” stabilisce le loro coordinate musicali: brani lunghissimi intorno all’ora di musica, un “ipnotico” senso della ripetizione, un chiaro spirito jazz dedito ad una improvvisazione di altro genere; difficile indicare quali siano le migliori prove di fronte a tanta omogeneità stilistica; direi che i Necks dei novanta si distinguevano per un influsso prevalente di jazz all’interno delle loro suites, e sono anche quelli più “normali”; quelli più progressivi hanno come portabandiera “Hanging Gardens”, quelli più ambientali si trovano in “Aether”, quelli più sperimentali si trovano in “See me through”, quelli divisi tra tendenza classicista e umori etnici orientaleggianti in “Townswille”: ognuno può scegliersi il suo disco di riferimento!
Bartsch quest’anno si è presentato ad Umbria Jazz nell’ambito di un nuovo spazio dedicato a Eicher e ai suoi musicisti, e sembra si sia fatto notare per avere un’opinione piuttosto lungimirante nel giudizio della musica contemporanea. “Llyria” (ECM 2010) prende il nome dalla recente scoperta di un essere marino sui fondali e vuol dare probabilmente proprio l’impressione di un caratteristico ascolto da “ricerca”; ormai l’artista è pienamente cosciente di aver creato un suo sound e in quest’episodio il tentativo è quello di approfondirne i contenuti.
Anche “Silverwater“, ultimo lavoro dei Necks da annoverare tra i loro migliori, si arrichisce di ulteriori contributi strumentali come spiega Jon Lusk su BBC Review del 4/12/2009, ….ma “Silverwater” ha una maggiore varietà di suoni -molto belli e intriganti, altri più inquietanti – rispetto alla maggior parte delle loro creazioni. Ci sono gongs sontuosi, un organo vagante, nervosa elettronica suonata in low-fi, ondate di chitarre elettriche in stile ambientale, il tintinnio del suono dell’anklung (un sonaglio sintetico di bambù usato nella musica tradizionale indonesiana) e anche qualche fischio. (mia traduzione), con risultato quello di accrescere lo stato di “sospensione” della composizione così come descrive Scaruffi nella sua recensione: …il loro metodo ipnotico rivela finalmente uno scopo metafisico, anche se il senso ultimo dei loro cerimoniali infiniti rimane ancora criptato…..(mia traduzione).
La mia sensazione è che siamo di fronte a quelle forme d’arte che non vengono adeguatamente comprese nel tempo in cui si realizzano ma che diventano le basi di partenza per i movimenti musicali del domani.
Discografie consigliate:
Premessa: è consigliabile un’ascolto globale delle discografie di questi artisti. Se questo non vi è possibile allora cercate di ascoltare almeno questi da me segnalati.
The Necks:
-Sex, Spiral Scratch, 1989 – ristampato su Fish of Milk 1995
-Hanging gardens, Fish of Milk, 1999
-Aether, Fish of Milk, 2001
-See through, Fish of Milk 2004
-Townswille, Fish of Milk 2007
Nik Bartsch’s Ronin:
-Hyshiro, Piano solo, Tonus 2002
-Rea, Ronin 2004
-Stoa, Ecm 2006
-Holon, Ecm 2008