Un breve esame delle discografie di tre chitarristi fusion americani: Ben Monder, John Moulder e Nels Cline.
Di New York, Ben Monder ha già una consolidata stima negli ambienti del jazz grazie ad alcune delle sue partecipazioni (fortemente volute) nei dischi di Maria Schneider Orchestra e nel gruppo aperto a più elementi di Paul Motian. Ha fatto pochi dischi da solista (cinque, escluso questo) dove chiaramente esprime in maniera compiuta la sua “visione” musicale: chitarrista di impostazione “fusion”, paga musicalmente tributo ad un certo sound di Bill Frisell, a Jim Hall e a tutta la sua schiera di continuatori (da Pat Metheny a John Scofield e Kurt Rosenwinkel), con un altrettanto richiamo musicale vicino allo stile raffinato di chitarra jazz di impronta latina nella tradizione di Egberto Gismonti. Il suo mondo musicale quindi abbraccia quella parte del genere più “intima”, quella che a volte viene considerata meno appariscente e più “libera” (spesso Monder usa anche le voci richiamando alla memoria le impostazioni e la sensibilità musicale degli Azimuth di John Taylor e Norma Winstone, o dei Return to Forever di Chick Corea periodo Flora Plurim, sebbene smussata degli eccentrici vocalizzi) sbilanciandosi in lunghi brani in piena libertà creativa, in cui riesce ad amalgamare un suono tutto suo, misterioso e gradevolissimo allo stesso tempo, e badate bene di alto contenuto tecnico. (ascoltatevi “Windowpane” da “Excavation”, o “Oceana” dall’omonimo album).
“Bloom”, in duo con il sassofonista Bill McHenry, altro musicista sottovalutato di New York, anch’egli con una esigua carriera discografica e tante collaborazioni importanti, è un bellissimo esempio di interplay tra i due musicisti, un “affresco” sonoro che tende alla riflessione, dai toni smorzati e suggestivi.
Chitarrista di Chicago, anche John Moulder ha pochi album solistici alle spalle in quasi vent’anni di carriera. Forte di valide collaborazioni con musicisti più blasonati, Moulder ha sviluppato pian piano il suo stile “semplicemente jazz”, avvicinandolo sempre più a quello dei chitarristi “nordici” o comunque ECM-Style degli anni settanta ed ottanta (Rypdal e Abercrombie in specie per la parte elettrica, Towner per la parte acustica). “Bifrost” sembra proprio inserito in quel filone: al disco partecipano ospiti illustri tra cui Arild Andersen al contrabbasso, il suo compagno di lavoro Paul Wertico e il sassofonista Bendik Hofseth che in questo contesto prende la parti del Garbarek d’annata. Il disco è ottimamente costruito e potrebbe essere un nuovo punto di arrivo su cui costruire altre esperienze; quello che è certo è che, “Bifrost” costituisce la sua migliore prova discografica sebbene la sensazione è quella di non essere di fronte ad una vera novità.
Di ben più ampia popolarità è invece il chitarrista di origine losangelina Nels Cline, che si è imposto all’attenzione della critica mondiale per il suo eclettico stile allo strumento: passato attraverso i meandri del punk e del rock, oggi è diventato per molti adepti il punto di riferimento necessario per dare un possibile futuro alla chitarra nel jazz, che cerca interazioni con altri generi. Poliglotta nell’impostazione stilistica, Cline ha da sempre cercato un’integrazione multigenere (blues, rock, country, free jazz, musica orientale, ambient, ecc.), che potesse convogliare istanze tradizionali e moderne, dando un giusto peso anche a sperimentazioni sonore confinanti nel “noise”. Tutta la sua discografia si nutre di questo impasto che è riepilogo di tutto, ma che alla fine riesce ad essere personale nell’esecuzione. “Initiate”, (con una parte in studio ed una live), pur avendo qualche momento minore che lo distanzia dai suoi più recenti progetti discografici (“Draw breath” e “Coward”), conferma la missione “multistilistica” di Cline tendente alla ridefinizione di un nuovo sound jazzistico.