Milica Djordjevic (1984) è una giovane compositrice serba che ad appena 30 anni già faceva parlare di sé. Ha vinto premi importanti e ha ricevuto commissioni che di solito verrebbero affidate ad un compositore esperto e temprato nell’età. Il suo potenziale è soprattutto indirizzato alla scrittura per orchestra o comunque per grandi ensembles, una circostanza che induce a verificare sorgenti e raggio d’azione della compositrice. L’occasione per conoscere la sua musica è la seconda monografia pubblicata per la col legno R., che arriva a circa un’anno di distanza dalla prima pubblicata per la Wergo (che era totalmente incentrata sulla musica da camera): è una concentrazione esaustiva per riconoscere le qualità della sua scrittura aggregata, dal titolo rocks – stars – metals – light, posto come un surrogato di un pensiero composito, che rimette in gioco elementi del passato vissuti sulla propria esperienza di vita. Vediamo quali.
La Djordjevic segue con molta chiarezza un proprio filo logico, che prende piena consapevolezza di quell’effervescenza teorica ed emotiva riscontrabile attorno alle avanguardie dell’Est europeo tra la fine dei cinquanta e tutti i sessanta inoltrati: c’è un riferimento a poeti come Miroslav Antic o Vasko Popa, che rivela un gradimento per tutte le attività letterarie contrarie al realismo socialista, così come la scrittura musicale si rivolge principalmente alle innovazioni del Kracow group, ossia a quell’insieme di compositori polacchi che a fine cinquanta ebbero il merito di contrastare il pregiudizio della musica tonale, lavorando in avanscoperta sulle orchestre. I polacchi, con Penderecki in testa, interiorizzarono gli effetti di quanto Xenakis aveva fatto con Metastasis o Pithoprakta, eliminando qualsiasi fattore matematico per la costruzione delle strutture. Il lavoro, perciò, venne totalmente assorbito dal potenziale emotivo profuso da sovrapposizioni che scaturivano da estensioni degli strumenti, con particolare cura per strumenti a registro basso e quelli a corda; in merito a tale ultimo punto basti pensare a quanto fatto da Penderecki ai suoi esordi (Emanations, Threnody to the victims of Hiroshima, Polymorphia, Canon erano tutte composizioni studiate per uno speciale avanzamento degli strumenti strings).
Il pezzo con cui la serba è uscita fuori dall’anonimato del settore è stato Firefly in a jar nel 2007, dettato dalla claustrofobia provocata dalle ferite morali della guerra nel suo paese, quando era ancora un’adolescente; è in quella sede che la Djordjevic costruisce il primo pezzo di maturità della sua musica, sollevando i fantasmi spettrali delle orchestre; questa circostanza, opportunamente notata dalle sedi accademiche, le dà la possibilità di ottenere una commissione con l’Arditti String quartet l’anno successivo, dal titolo The Death of the Star-Knower, petrified echoes of an epitaph in a kicked crystal of time, una composizione che è il frutto di studi sulla spectral music compiuti in Francia in casa Boulez; ciò che si apprezza in lei è continuamente confermato dalla bellezza di composizioni che hanno quelle qualità forti, che qualcuno definisce addirittura spasmodiche. Alla DW Culture Milica dichiara che “…I don’t think about the audience. You could say my music is l’art pour l’art. It doesn’t make a political, social or some other kind of statement. But I think it’s very important that my music have an impact. It should provoke an emotion, a feeling – something….” .
I pezzi della raccolta della col legno insistono proprio su questa direzione: la Munchener Kammerorchester diretta da Schuldt magnifica The firefly in a jar, mentre l’Armida quartett produce in The death of the Star-Knower una prestazione di equi-valore con quella dell’Arditti; ma sono anche i successivi componimenti (in ordine temporale) che esacerbano gli intendimenti della Djordjevic: in Sky limited (sempre Munchener Kammerorchester) del 2014, Rdja (Ensemble Recherche) del 2015 e Quicksilver (Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks diretta da Peter Rundel) del 2016, c’è tutto il potenziale che le viene riconosciuto: scordature, glissandi, clusters, textures complesse, scontri di masse sonore e persino eccessi di suono, vengono accompagnati da alcuni accorgimenti che la Djordjevic mutua dalle micropolifonie di Ligeti calati in una realtà strumentale e dalle sistemazioni di suoni della compensazione spettrale (alcuni trilli dei violini sono portati ad estrema configurazione); tutto ciò finisce per immergerci in strutture in continua metamorfosi sonora, dove dentro si finisce anche per trovare qualche traccia della memoria popolare (la ascolti chiaramante in uno sketch di The death of the Star-Knower).
Sebbene non ci sono le condizioni per comparare il grado di complessità che icone come Xenakis hanno profuso nella concettualità della loro composizione, la Djordjevic sembra sulla strada di riaprire in maniera efficiente un certo tipo di sviluppo orchestrale, che per tanti motivi è stato declinato. Approfondisce i temi polacchi di quel tempo, li arricchisce con le sue formazioni e non c’è dubbio che la sua Quicksilver riparta dalla Little Symphony “Scultura” di Boguslaw Schaeffer. Ciò, che mi chiedo, alla luce di quanto profuso da Xenakis fino alla sua morte o dalle avanguardie polacche (che invero cambiarono rotta dopo un ventennio circa), che tipo di continuazione sia possibile. L’ultimo Xenakis orchestrale, quello dei novanta, aveva raggiunto tramite le procedure matematiche uno status eccezionale, consapevolmente orientato alla completa astrazione.
Se si fa mente locale sui gradini alti dell’orchestrazione contemporanea (Haas, Andre, etc.) si deve propendere per argomentazioni che aumentano a dismisura il carico spettrale e il fascino timbrico a scapito di quello relazionale, e la Djordjevic dimostra di essere in mezzo, e di poter ambire ad un posto importante in questo olimpo di personalità.
Al momento, dunque, ci godiamo questa musica intensa, con un cd che penso rientrerà nei best di molti critici ed appassionati di contemporanea, proprio per le sue caratteristiche, per un suono che invero ci manca, in un momento in cui si sente il bisogno nella musica di far un salto nel passato per rendere evidenti le sue pietre preziose.