Recensione originariamente pubblicata su esoteros, courtesy l’autore.
Per quanti anni – macché, decenni – l’elettronica è stata considerata la frontiera più avanzata dell’espressione sonora, l’orizzonte più foriero di opportunità per sperimentare e contaminare senza limitazioni di sorta? Ancora oggi nessuno immaginerebbe che la sfida più avvincente si gioca invece sul campo della strumentazione acustica, laddove le tecniche estese esplorate dalle avanguardie colte e dalle correnti della musica spontanea hanno portato alla luce una gamma di inflessioni timbriche e subarmoniche inimmaginabili sino a metà Novecento. I trombettisti Axel Dörner e Mazen Kerbaj non sono che i (pen)ultimi in una schiera di veementi riformatori del linguaggio improvvisativo, talmente devoti alla loro appendice strumentale da rivoltarla come un calzino per scovarne le più inusitate proprietà fonetiche.
In un mondo meritocratico l’album a nome Ariha Brass Quartet sarebbe diventato una sorta di instant classic negli ambienti più radicali, così come i volumi di Solo Trumpet compilati da Kerbaj costituirebbero l’enciclopedia e il manifesto a partire dai quali rifondare l’identità stessa della tromba. Allo stesso modo, il primo lavoro in duo di Dörner e Kerbaj rappresenta un’ulteriore tabula rasa dei ruoli che il suddetto ottone ha storicamente ricoperto, laddove i due sperimentatori lo trattano invece come oggetto sonoro alieno e resistente alla benché minima forma di lirismo.
Le sessioni estese riunite sotto il titolo autoironico Döner Kebab sono paragonabili a impulsivi studi di arte concreta, urgenti e irrefrenabili accumulazioni di micro-eventi acustici quasi mai interrelati, la cui rifrazione nei canali stereo risulta utile – benché non strettamente necessaria – a distinguerne la rispettiva provenienza (il tedesco a sinistra, il libanese a destra). Schegge di avvincente nonsense scintillano nel dinamico primo take, mentre nel secondo si fanno strada anche timide spinte verso un irrealizzabile unisono, tentativi di comunanza idiomatica che riaffermano la necessaria indipendenza tra le parti, unico viatico alla coniazione di un autentico “esperanto” performativo fatto di saliva e mani sudate.
La sobria crudezza di queste due sequenze è controbilanciata dalla susseguente traslazione nella dimensione elettronica/acusmatica: in “Ayran” (la tradizionale bevanda allo yogurt servita col kebab) si realizza un prototipo tutto nuovo, un suono di tromba in realtà aumentata, proiettato in ogni direzione e ulteriormente mistificato nella sua natura timbrica; un gioco di specchi caotico e rombante teso a elevare lo strumento oltre la sua nuda e lucente fisicità, tramutandolo in argento vivo con il dono apparente di un’ubiquità non sollecitata, libero in misura tale da disconoscere persino i propri artefici.