Nell’impostare un quartetto di sassofoni dell’improvvisazione libera si possono seguire molte strade. Si può avere una strategia preventiva che a grandi linee fissa i ruoli dei musicisti, si può determinare il tipo di obiettivi da raggiungere in termini di relazioni o di ricerca di un modello sonoro, si può decidere di lavorare su alcuni registri o sulle tecniche estensive in maniera più o meno pronunciata.
La selettiva storia dei saxophone quartets nell’improvvisazione dimostra che l’avvento di quartetti dedicati come il Rova Saxophone Quartet o il World Saxophone Quartet non fosse atto risolutivo per gli specialisti del sassofono: se da una parte sassofonisti come Roscoe Mitchell o Anthony Braxton hanno tentato di inquadrare il quartetto di sax come un’intrigante risorsa in bilico tra composizione e improvvisazione (nei loro occasionali ritorni d’interesse per quella specifica formazione), dall’altra gente come Brotzmann o Vandermark hanno in qualche modo perpetuato il carattere muscolare delle aggregazioni di Ochs, Raskin e soci. Negli ultimi vent’anni poi, sono emerse particolarità sperimentali che hanno preso in esame i timbri, le simmetrie o le asperità delle tecniche estensive: da James Fei a Frank Gratkowski, da Travis LaPlante a Tom Ward, da John Butcher a Steve Lehman, il quartetto ha vissuto un approfondimento di nicchia che è andato di pari passo con le evoluzioni del mondo classico, il quale ad un certo punto aveva bisogno di sviluppare un repertorio ed un’identità in quartetto. Tuttavia c’è da rimarcare che ad ogni modo l’ultimo decennio di questo secolo è stato un momento di netto contrasto rispetto alle principali esigenze espressive dei sassofonisti, sempre più votati ad una educata esposizione dei registri, dei timbri e delle estensioni (il caso tipico è Colin Stetson).
Anche il sassofonista Ivo Perelman arriva all’esperienza del saxophone quartet e, una volta che si sono accettate le caratteristiche somatiche dell’artista, non si può fare a meno di pensare che l’area di penetrazione musicale sia quella del classico quartetto scevro da idiomi jazzistici e libero di impattare su ogni fronte. In (D)Ivo (questo il titolo del CD), la verità è che c’è una regia delle operazioni che parte proprio dal pensiero del sassofonista brasiliano e che ha probabilmente influenzato la scelta dei partners: al soprano e all’alto sono stati invitati due big come Tony Malaby e Tim Berne, in grado di assicurare movimenti perpetui, con legature delle scale perfette e un uso spasmodico della potenza espressiva delle estensioni; al baritono invece Ivo ha invitato James Carter, un sassofonista che molti hanno conosciuto su altri registri ma che per ben 3 anni consecutivi fu votato come miglior baritonista dalla rivista Down Beat; Carter era il candidato perfetto per ottenere un’impronta fisico-meccanica dello strumento, capace di andare a stantuffo sulle note o sulle chiavi morte e mantenere l’assetto del fondo strumentale complessivo.
Si diceva della regia di Perelman: il suo tenore è sempre presente come linea guida che può consistere in una linea melodica astratta o nel rinforzo interattivo con gli altri musicisti. Ciò che colpisce di (D)Ivo è l’intensità delle evoluzioni sonore, una densità che solitamente ha caratterizzato le opere migliore del sassofonista di origine brasiliana: tenere per un set di un’ora una costante capacità di “strigliare” i propri strumenti non è cosa che si trova facilmente in giro; si riottiene quella magica compattezza della musica di Perelman che può considerarsi in questo caso una divergenza del temperamento che solitamente ha riempito il suo espressionismo astratto poiché non tende ad esacerbare un lamento o un grido ma a stabilire una disposizione d’animo di effervescenza, un atteggiamento che probabilmente presuppone piena soddisfazione interiore. Siamo nel “traffico” e non dietro un’anima “persa” del mondo. E’ un’esemplare coralità che colma la gioia dell’umanità, in grado di evidenziare le qualità eccelse dei musicisti e la loro capacità di fare quanto Perelman ha spesso preteso dalla sua musica, ossia l'”amalgama”: le prime 4 parti hanno l’aria di essere anche descrittive, mentre dalla quinta in poi aumenta il tecnicismo, laddove la quinta è quasi grottesca ma con tessuto estensivo da cogliere con attenzione, la sesta è una sincronia blanda in movimento che presenta una tecnica estensiva di scarico, qualcosa che somiglia alla mancata accensione di un motore di un auto, la settima è un crogiuolo di iniziative dei quattro che “armonicamente” si muovono in uno spazio aperto alla curiosità.
Se lo vogliamo vedere in una chiave storica, (D)Ivo potrebbe essere un ascendente rapportato e perfezionato ai nostri tempi del seminale Cinema Roveté del Rova Saxophone Quartet e in una fine graduatoria di CDs dedicati alla struttura classica del quartetto SABT può porsi come uno dei picchi massimi che l’improvvisazione libera abbia mai raggiunto sulla materia, soprattutto se guardiamo le cose dal punto di vista della creatività e libertà d’azione.
Perelman ha anche definito le velleità di un altro quartetto, decisamente più convenzionale rispetto a quello di (D)Ivo: si tratta di Magic Dust, una registrazione effettuata il 4 agosto scorso con William Parker (contrabbasso e shakuhachi), Christopher Parker (pianoforte) e Chad Anderson (batteria). In una sacca idiomatica piuttosto evidente, Perelman elargisce le sue qualità confortato da quel tipo di free jazz sound che ci ha mandato in visibilio per tanti anni (e spesso lo fa ancora); è musica che ha le qualità di un sistema che ha creduto alla magia del mondo spirituale di potersi collegare con quello fisico, una visione che Perelman e William Parker soprattutto, hanno catalizzato come fondamentale basamento della loro filosofia musicale. Magic Dust ha una sua invidiabile e naturale qualità!!!
Si tratta di 4 jams preziosissime, di un tale livello strumentale che non so di quanto devo tornare indietro nel tempo per trovarne una di eguale caratura: c’è equilibrio, un’intrinseca armonia (che non significa assolutamente mancanza di contenuti), il tipico flusso benefico delle improvvisazioni free jazz riuscite, forse agevolato anche dal tipo registrazione che bilancia perfettamente i pesi acustici degli strumenti. Perelman stende le sue progressioni su un favoloso sfondo dinamico, favorito dalla modalità delle soluzioni del pianista Parker, instant solutions che gratificano l’ascolto: in alcuni momenti Perelman va in vetta e spinge il suo sax su registri altissimi, dandoci vibranti sensazioni e facendoci capire che la sua bravura al sax non è affatto assimilabile al protagonismo ma è una dimostrazione di forza, di efficacia, che scava significati sotto i contenuti musicali. C’è spazio anche per un effervescente dialogicità quando si crea un contatto con lo shakuhachi di Parker in Cardician, ma è nei 37 minuti della title track che molte magie attribuibili all’emotività della musica si compiono.