Per la consueta tornata di recensioni dei CDs della Setola, questa volta mi sembra possa andar bene un criterio di presentazione temporale, direi un misto tra il normale asse dei tempi e la previsione di un’avanscoperta delle proposte.
Futuro
Sergio Fedele non è certo un tipo che si incunea nell’ordinarietà di un percorso artistico. Lo dimostra l’Ecatorf, uno strumento da lui costruito, che da undici anni imperversa nella sua ricerca. L’Ecatorf è composto da un’imboccatura che, per bocchino utilizzato e canna cilindrica, si riconduce al clarinetto soprano, mentre la slitta dello strumento è quella di un trombone posto però in orizzontale; la campana e le valvole fanno pensare anche agli altri strumenti ad ottone disponibili sul mercato. Fedele lo suona seduto e aziona le braccia per far scorrere la slitta e movimentare le chiavi esterne, ottenendo un’estensione di registro di quattro ottave e mezzo, superiore a quella di un clarinetto contrabbasso: a livello sonoro ciò che ne deriva è un fantastico gigante che è in grado di emettere sub-armoniche profonde e caratterizzate, con punteggiature che sembrano riprodurre la dinamica di partenza dell’elica di un motore. L’eccentrica nomenclatura dello strumento deriva dalla contrazione tra Ecate e Orfeo, due soggetti della mitologia greca che santificano l’incrocio e il mistero: la fantasia mitologica è applicabile anche alle sue esibizioni, cosa che è regolarmente accaduta con Le Melancolie di Tifeo quando Fedele ha presentato e suonato un set di circa 25 minuti al festival di Angelica lo scorso anno; superando l’impostazione storica che vede quel potente mostro arruolarsi in battaglie cruente e decisive per la sua esistenza contro la signoria degli Dei, Fedele mette in movimento un sound che è espressione di un lamento circoscritto, di una spocchioso essere in stand by rispetto agli eventi, una tessitura musicale che valorizza le caratteristiche tecniche dello strumento e riesce persino a farci pensare a linee melodiche che replicherebbero sentimenti. Un corposo libretto scritto di pugno da Fedele accompagna il CD e coglie molti aspetti della sua ricerca, tra i quali vi invito a porre attenzione sulle tecniche usate per suonare l’Ecatorf, dai free slaps profusi nella prima parte dell’esibizione di Angelica e che mutuano la tecnica originata da Stomp Evans sullo slap tongue, fino ad arrivare alla specificazione di una multifonia che produce impasti differenziati (Fedele parla di suoni rotti, battimenti e infrasuoni di combinazione secondo la classificazione di Reginal Smith Brindle).
Flavio Zanuttini sperimenta invece sulla tromba. In Italia è uno dei pochi a farlo tra coloro che provengono dal mondo del jazz. Ginkgo, il suo secondo lavoro come solista, approfondisce l’idea di Goethe e della sua meravigliosa poesia, un anfratto della duplicità (dicasi anche molteplicità) delle qualità della pianta di origine cinese rapportate all’uomo, una poesia che vale assolutamente la pena di rileggere:
La foglia di quest’albero, dall’oriente
affidato al mio giardino,
segreto senso fa assaporare
così come al sapiente piace fare.
E’ una sola cosa viva,
che in se stessa si è divisa?
O son due, che scelto hanno,
si conoscan come una?
In risposta a tal domanda,
trovai forse il giusto senso.
Non avverti nei miei canti
ch’io son uno e doppio insieme?
Musicalmente la duplicità (o molteplicità) può arrivare da molti sentieri: in Legno, per esempio, è una particolare ricerca di multifonici che insiste su un tono sostenuto che tende però anche ad evidenziare le raschiature che si producono nei dintorni sonori, quando il controllo non è più volutamente perfetto; in Chioma d’autunno si instaura un parossismo sull’effetto duplex dell’insufflazione vocale, mentre Linfa gioca su un effetto percussivo aggiuntivo su una linea melodica ripetuta all’infinito; Foglia scopre segreti nel canale d’aria mentre Chioma di primavera è un rigoglio formato con le tecniche estese. In tutti i casi le molteplicità hanno uno scopo, ossia cercare di rendere molto probabili livelli di cointeressenza con i parametri musicali ordinari, una dimostrazione del fatto che non si tratta solo di rumori o suoni estemporanei ma dell’esistenza di una loro nuova messa in fase espressiva.
Presente
E’ evidente che una sessione di improvvisazione libera segua dei canoni particolari ogni qualvolta venga posta in essere. Gianni Lenoci mi insegnò che un improvvisatore, al pari di qualsiasi essere umano, ha un umore differente per ciascun giorno del calendario e la pratica del momento gioca un ruolo decisivo per la performance in un dato istante: se nella mente c’è un soggetto o argomento musicale che è scavato nello studio e mani o respiro sono musicalmente impegnate in un certo modo, la performance avrà stimmate di questi processi preventivi.
Per l’improvvisazione del trio Giuseppe Giuliano (pianoforte), Gabriel Bechini (clarinetti) e Amedeo Verniani (contrabbasso) all’Auditorium ISSM Mascagni di Livorno nel settembre del 2021, si possono certamente dare indicazioni concrete su quanto prima accennato; l’esibizione è finita nel CD intitolato L’attimo fuggente e presenta in linea generale una sessione musicale che mette assieme tre impostazioni del momento: Giuliano sembra aver in mente una soluzione variabile tra i grappoli di Cecil Taylor e i pianisti moderni che abbondano nel fornire ostacoli ai parametri lavorando negli interni del pianoforte, Bechini ha in testa il It Ain’t Necessarily So, dove questo standard verrebbe disorientato nella riconoscibilità con modifiche della linea melodica, mentre Verniani potrebbe stare tra Paul Chambers e un filo di austerità.
Ci sono comunque dei tributi dichiarati, uno è nei confronti di Bussotti, l’altro è proiettato su Cardew, che fanno intuire come l’improvvisazione abbia dei referenti compositivi, ma nulla che sia direttamente estraibile ai nomi citati, poiché il flusso improvvisativo si crea e si arricchisce degli istinti real time dei musicisti (per esempio, in Dedica 2 a Cardew si accolgono molte tecniche estensive antropomorfe che sono però in legatura perfetta tra loro); è molto labile il confine tra texture e flusso incosciente.
L’attimo fuggente rileva quindi uno spazio d’azione mentale, uno spazio dotato di una fantomatica realtà comunicativa, che forse traccia un senso dell’essere veri musicisti oggi, non essere inerti nel comprendere le complessità ed esser liberi di presentare un potere sostitutivo della musica che si esplica su coordinate nettamente differenti da quelle che gli standards vorrebbero imporre. E per questo risultato, ci vogliono anche musicisti decisamente di valore.
Il Mahakaruna Quartet è un quartetto di improvvisatori che interpreta con efficacia un free jazz di cui ne vantano una linea di introversione: Giorgio Pacorig (al fender Rhodes piano), Gabriele Cancelli (tromba), Cene Resnik (sassofono tenore) e Stefano Giust (batteria e cimbali) propongono una sorta di allucinazione jazz che si fonda su un rivolo di quella maestosa direttiva che Miles Davis introdusse nel suo In a Silent Way. In quel famoso lavoro Davis fece di tutto per smarcarsi da un’etichetta o genere, per proporre una forma di espressione universale, non scevra da una posizione politicamente critica sulla comunità del jazz; aldilà dell’impronta musicale rivestita, In a Silent Way voleva affermare una costruzione libera e senza compromessi della musica e indicare che anche in una forma introspettiva di musica c’è una vita che bolle. Cogliere il messaggio di questi tempi significa appoggiare tutte quelle attività sociali che sono i parafulmini del diniego dei diritti e il Mahakaruna (che sta per “grande compassione” in sanscrito) l’ha fatto attraverso la musica e la liberazione dei dogmi.
Life Practice, il loro secondo album contenuto del concerto al Jazzmatec Festival nel 2020, non si riporta ai canti di lavoro o alle fasi della collettivizzazione del jazz degli anni settanta così come affrontato nel primo CD, ma tenta di offrire una visuale improvvisativa che raccoglie gli intenti dei quattro musicisti: musica intelligente, flussi di free jazz in cui l’obiettivo è l’espansione dei risultati, apertura delle menti attuabili con un piano d’azione in cui ognuno dei musicisti partecipa in maniera equivalente, dal fender rhodes che gioca un ruolo specifico per delineare gli scenari (molto differente dall’organo pompante di Corea, per intenderci) alla percussione che è invece un turbine; per la tromba e il sax tenore l’istinto è di muoversi rapidamente con assoli in sezioni che durano intense nello spazio di un respiro.
Costruito nel periodo del Covid è invece Forme e Racconti del giovane contrabbassista Marco Bellafiore. La filosofia del lavoro è che il contrabbasso può essere selezionato nei suoi timbri, nelle sue linee melodiche o nelle sue propulsioni e poi ricomposto grazie alle sovrapposizioni e ai loops che dominano il fissaggio degli elementi. Mediante questa azione si formano brillanti escursioni espressive, direi dal piglio post-moderno, che contengono da una parte ottimi espedienti nell’assemblaggio e dall’altra una probabilità ampia di affermarsi anche di fronte ad un pubblico meno preparato: prendete, per esempio, l’andamento di Wormhole che struttura gli elementi (la melodia in glissando, i loops in up-tempo, i mascheramenti/rimescolamenti dei timbri con l’elettronica, etc.) senza farsi scrupolo di presentare uno sghembo pool di note dall’influenza morriconiana; c’è anche un riferimento orientale in Honshirabe che, lontano da qualsiasi filtro sintetico, cerca di cogliere attraverso l’avvicinamento alle scale, l’essenza della pratica del respiro del karma, che nel funesto periodo del covid è stato probabilmente una guida sulla tenuta psicologica, dal momento che la conoscenza delle sue leggi insegnava ad accettare l’accaduto e porsi in una relazione benefica per il futuro, quanto poi è avvertibile con chiarezza nella conclusione felice della successiva The Moon was a slice of lemon. Nel finale, in It wasn’t so bad at all, il contrabbasso è un austero conduttore di speranza ed il luogo in cui si può apprezzare un’influenza, perché si materializza a suo modo l’ombra di Charlie Haden, soprattutto quella dei cieli del Missouri.
Passato
Chi avuto la fortuna di conoscere Michiko Hirayama sa di aver assistito ad una sorta di cerimoniale della conoscenza. Si entrava nella sua casa romana con ciabatte, si sorseggiava un tè da lei preparato, si assisteva alle cure che Michiko offriva alla sua tartaruga Oreste; tutte azioni prodromiche alla conversazione sulla musica e alle esibizioni-improvvisazioni che giungevano talvolta come elemento terminale dei convenevoli e delle discussioni.
Il 16 gennaio del 2010, Roberto Bellatalla e Luca Miti si trovarono con lei per un’improvvisazione che oggi, dopo un lungo lavoro di restauro della registrazione amatoriale originale, diventa un CD per Setola: Oreste in giardino è perciò una testimonianza non più ripetibile di un incontro musicale che avviene nella sua casa, con lei al canto, Miti al piano e Bellatalla al contrabbasso e che si sviluppa praticamente sulla base di un tono sostenuto alla maniera di Scelsi; Michiko istiga mistero con il suo canto, ogni tanto portato al richiamo drammatico operistico, Miti si inventa note o accordi sparsi sulla tastiera dalla lunga risonanza, mentre Bellatalla addomestica il linguaggio del contrabbasso e lo guida timbricamente, muovendosi nei paraggi di una linea immaginaria che è anche in grado di fornire sviluppo avvolgente; si sente, poi, Michiko che in una pausa scambia opinioni sulla bontà del portamento strutturale e fornisce indicazioni sulla colorazione degli strumenti che possono ricondursi al carattere di chi li suona.
Purtroppo la registrazione originale doveva essere veramente difficile da gestire poiché nonostante gli interventi di Stefano Quarta (il sound engineering che si è occupato del restauro) il risultato finale va colto con molta approssimazione dal punto di vista della qualità sonora; tuttavia, si intuisce che sotto quella mancanza di definizione i tre musicisti avevano interpretato benissimo il loro ruolo di improvvisatori e gli arrotondamenti ridondanti dei suoni appaiono come testimoni di un evento comunque riuscito, un pò come succedeva nei 78 giri di Charlie Parker prima che arrivasse il long playing. In Oreste in giardino si conserva intatto un mistero della musica, qualcosa che accomuna la casa di Hirayama con quella di Scelsi, che aveva scelto la cantante giapponese come uno dei migliori agenti propagatori della sua composizione e della sua visione spirituale. Mi piacerebbe conoscere le intime sensazioni di Miti e Bellatalla al riguardo.
Da un’improvvisazione libera del 1997 registrata al Vecchio Mulino di Balbano (frazione di Lucca) arriva Small Parts of Garden, un quartetto formato da Esther Lamneck, René Mogensen, Edoardo Ricci e Eugenio Sanna. Qui si fa un tuffo nelle dinamiche del caos, nel parossismo dell’espressione e in generale nelle materie che hanno sviluppato gli improvvisatori dopo aver ascoltato almeno il Machine Gun di Brötzmann e i crucci degli improvvisatori olandesi. I quattro musicisti si intonano sulla velocizzazione delle manovre improvvisative, con prevalenza di strumenti a fiato ed imperiosi flussi di esternazione, in alcuni momenti fagocitatori di suoni e caratterizzazioni personali: i borbottii, le sfuriate che vengono fuori dagli strumenti e dal megafono di Ricci, la durissima frammentazione di Mogensen e Lamneck, il pick up metallico che caratterizza l’idioma di Sanna, sono tutti elementi di un teatro dell’assurdo che in quegli anni animava lo spirito di molta improvvisazione europea. Aldilà di tutto ci sono però le capacità di avventurarsi in mondi sonori che oggi vengono quasi visti con sospetto perché manca la cultura di base per comprenderli: come si fa a non apprezzare sul clarinetto e il tarogato la fantastica ed avventurosa propensione improvvisatrice della Lamneck? Come è possibile che si creino formidabili zone ruvide e rutilanti da una coordinazione con altri musicisti? Il fiato della Lamneck ne esce edificato dalle escursioni, quelle che senza pausa forniscono anche sassofonisti bravissimi come Mogensen e Ricci, affidabili cursori di costruzioni complesse. C’è la tecnica sotto che sorregge e vale proprio la pena di pensare che qui la complessità è un dono!