Germano Scurti al MA/IN Festival

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foto Dino Santoro

Solitamente i concerti di musica offrono nuove interpretazioni che nel 90% dei casi non aggiungono nulla nè al pezzo del compositore nè tanto meno alla storia. Quando però il concerto è esplicazione di una direzione artistica intelligente, con una mentalità aperta completamente alla novità e alla voglia di presentare una ricerca che sia esattamente l’opposto di una supernova, l’interesse può andare ai massimi e molto probabilmente si diventa testimoni di eventi speciali, destinati a lasciare un ricordo fortissimo, oltre al fatto che quella musica ha nutrito più o meno silenziosamente la riflessione dei presenti.

Per il MA/IN festival, che ha avuto ubicazione presso la città di Potenza, le credenziali per ottenere questi immensi benefici ci sono tutte e la mia partecipazione al concerto della serata del 10 novembre ha confermato l’idea che in presenza di idee chiare, specifiche, con supporto finanziario e tecnologico adeguato, possono nascere grandi cose anche da quanto si ritiene nanismo o anonimato nella musica: il concerto Memorie al futuro di Germano Scurti si è concentrato sul bayan rapportato al live electronics attentamente gestito da tre specialisti della sonorizzazione sotto il palco (Giulio Colangelo, Vincenzo Procino, Francesco Rizzo), con composizioni nuove di zecca che rientrano in un programma sonoro che rappresenta quell’ossimoro indicato dalla titolazione, ossia l’idea di innestare un’essenza sonora e timbrica consolidata dalla storia nella morsa perdifiato delle provvidenze della vera attualità della musica classica, quella stimata su frantumazioni, estensioni o accrescimenti agevolati o rielaborati con l’ausilio delle tecnologie di interazione dal vivo.
Nel concerto di Scurti all’Auditorium del Conservatorio di Potenza (una costruzione post-moderna degli anni ’80 dove si intuiscono rilievi di medioevo e geometrie architettoniche del novecento tese ai larghi spazi e ad un’implicita gestione della socialità) ho assistito non solo alla messa in opera di un pacchetto di arricchimento coerente del repertorio contemporaneo del bayan in solo+elettronica, ma anche alle evoluzioni di un musicista che nel panorama dei fisarmonicisti produce una gestualità speciale durante le esibizioni, una corporalità che si adatta alla musica in maniera evidente, un vissuto fisico che sotto le immense difficoltà delle tecniche di esecuzione lavora a favore di un’integrazione emotiva dell’artista con il suo strumento e con l’area delle sensazioni che lo circonda.

Il programma di Memorie al Futuro di Scurti ha un filo logico e un senso poiché agli estremi del concerto sono collocati praticamente due inviti mentre nel mezzo vengono attivate le perturbazioni vitali. L’invito iniziale, con cui si apre il concerto, si consuma sull’ascolto profondo e tensivo di Grains, un brano di Pauline Oliveros per fisarmonica in just intonation ed elettronica trasformativa del 1988 che viene proposto acusmaticamente (ossia solo tramite gli altoparlanti): la magnifica armonia di quel drone cangiante è una riflessione sull’apertura a nuovi mondi sonori che Scurti antepone al suo ingresso in scena come sostanza ideologica di un diverso approccio alla materia musicale.
Le scosse arrivano subito con Hyperion scritta da Giulio Colangelo, un pezzo intermediale  di nove minuti con supporto digitale, live electronics e luci in forma di neon verticali che circondano Scurti nell’esecuzione: pochi secondi di concentrazione e la mano aperta di Scurti scorre velocemente in glissando sui bottoni di destra del bayan provocando degli scossoni accentuati dal trattamento elettronico; una serie di manovre non convenzionali tese ad una fenomenologia degli eventi musicali e una ricerca acustica sul registro alto che ha bisogno di un elevato grado di precisione nell’esecuzione sono le materie interagenti con l’intelligente parte elettronica, molto spesso sviluppata tramite una sincronizzazione dei neon che sono intorno a Scurti, procedimenti improvvisi e molto energici che si indirizzano verso quella tendenza multisensoriale della composizione dove le luci, la musica o la coreografia tout court del performer attuano un piano di collisioni degli eventi.
Per Fly di Daniele Ghisi, composizione di circa nove minuti al bayan con supporto digitale, Scurti deve davvero coordinarsi con quanto potrebbe scaturire da una sorta di algoritmo esecutivo, poiché le molte disposizioni previste dalla partitura devono fondersi con il trattamento dell’elettronica portata ad uguale dignità: le intensità e le velocità con cui Scurti si muove sul bayan sono sorprendenti e non ci vuole molto per capire dalla gestualità e le posture quanto sia alta la sua caratura di interprete. Gli affondi verso una visione senza pregiudizi dello strumento, in grado di assorbire elementi di derivazione popolare, arriva con Hight Light Night di Pasquale Corrado, 13 minuti di bayan e supporto digitale, dove le concitazioni ritmiche dell’elettronica che impongono una reazione di Scurti sono retaggi mascherati di techno music.
Il finale è tutto di Scurti e del suo Postludio, condotto con l’ausilio sia del supporto fisso che del live electronics, una composizione che lavora sul flusso e sull’escursione dei bottoni in basso del bayan, con l’elettronica che arrotonda gli angoli e vuole collaborare: Postludio introita un senso speciale, forse una preghiera sull’attualità e sull’aver fede in una differente ottica intenzionale nell’ascolto e nella vita.

Nella fase di presentazione del concerto, Vittorio Montalti si è espresso molto bene su come affrontare il concerto di Scurti, qualcosa che impone un rapporto o un dialogo tra musicista di bayan e un’ipotetica orchestra (suoni fissi o ancor di più il live electronics); in effetti ci sono dei precedenti tra bayan e orchestra trattati da Scurti allorché risaliamo a Sirius, composizione scritta nel 2009 da Alessandro Sbordoni, persona con cui Scurti ha avuto in dote un altro bel blocco di composizioni per ampliare il repertorio del bayan, ma sarà bene ricordare che il tipo di impegno, lo stile e le direzioni intraprese in Memorie al futuro sono elementi nettamente differenziati e potenziati in un’altra ottica.

Una grande scansione sul bayan. Davvero.

Ho avuto modo di conoscere la gentilissima organizzazione (i Colangelo, il team dei tecnici) e naturalmente lo stesso Germano, con cui abbiamo parlato del bayan e del tipo di relazione sviluppata per l’occasione di Memorie al Futuro. Lo ringrazio infitamente per la cortesia e la disponibilità al dialogo.

EG: Da che cosa ha preso vita Memorie al Futuro?
GS: Forse, in primo luogo, dall’idea del perturbante.
Ecco, l’idea di Memorie al futuro, un ossimoro in realtà di largo uso ormai, ci è sembrata quanto mai appropriata per descrivere lo sviluppo che negli ultimi decenni ha vissuto la fisarmonica e in particolare modo la sua versione più evoluta: il bayan. Uno strumento musicale acustico di recente invenzione ed elaborazione che desta sorpresa e nello stesso tempo familiarità. La sua origine, radicata nella tradizione popolare, e i suoi sviluppi negli ultimi decenni nella musica colta contemporanea vanno proprio a definire questo suo carattere duplice: essere uno strumento predisposto all’inedito e al tradizionale allo stesso tempo, una marcatura che probabilmente lo rende inconfondibile.
Considerazioni appunto che stanno alla base del nostro progetto, caratterizzato dalla valorizzazione della suddetta connaturata duplicità: la produzione di memoria e lo slancio verso il futuro, il sentimento della familiarità e l’attivazione perturbante dell’inedito. Considerazioni che sembrano quasi dispiegarsi naturalmente nella combinazione da noi concertata, ovvero il bayan con l’elettronica.
Quattro opere nuove dunque in prima esecuzione.
Ecco, quando nasce una nuova opera è sempre un evento, l’apertura di un mondo, in questo caso sonoro, in grado di metterci in relazione con noi stessi e con la contemporaneità che abitiamo. E in questo caso si tratta di una pluralità di eventi, di stili e di estetiche, frutto della storia personale degli autori, che ci offrono una visione sonora del nostro abitare a mio avviso di rara articolazione e bellezza.
Credo dunque che la peculiarità di Memorie al futuro possa essere rintracciata da una parte nell’aver creato un programma come un tutto organico specificamente dedicato appunto al bayan (accordion/fisarmonica) con l’elettronica e nello stesso tempo – mi si perdonerà questa affermazione così spudoratamente soggettiva, anche se non posso non riconoscermi qualche competenza di giudizio in merito, che viene dalla infinita stima che provo per gli autori coinvolti, Pasquale Corrado, Daniele Ghisi, Giulio Colangelo – essere riusciti a far nascere nuove opere elettroacustiche per questo organico che credo possano rappresentare un vero discrimine rispetto a quanto già esistente, cioè dei veri e propri masterpieces in grado di collocarsi nel panorama della composizione contemporanea come punti di riferimento.
Ora, spero che nell’articolazione di questa intervista si possa intuire l’umore e il ritmo del concerto stesso.


Foto Dino Santoro

EG
: Per Hyperion vorrei che mi dicessi qual è il grado di difficoltà del pezzo di Colangelo e come ti rapporti con la parte elettronica?
GS: Hyperion è un’opera che prende il titolo dal nome di un Titano, il pilastro dell’est. Non so se il titolo si riferisca anche all’origine geografica dello strumento che suono. Comunque, è un’opera per bayan, elettronica mista e luci reattive.
In questa sinestesia tra uditivo e visivo, l’opera sembra quasi una forma ibrida tra installazione e performance, una installazione concertante. Un’opera che si espone al pubblico, nella sua volontà di comporre un’ambiente, una architettura intermediale, anche per le sue proprietà “teatrali”.
Si apre infatti con una scena in cui il bayan è “ingabbiato”, “intrappolato” fisicamente all’interno di barre luminose. Il sistema, ovvero l’interrelazione strutturale tra le diverse parti, strumento acustico, elettronica, luci e messa in scena, perfettamente sincronizzato in una ritmica pulsante, stimola il processamento elettronico dello strumento acustico e ne provoca una reazione “ribelle”, amplificata da intermittenze luminose che vanno a sottolineare appunto le pulsazioni nervose di questa contesa.
Una “partita” di contrappunti e timbri dunque, dalle sottolineature raffinatissime, con escursioni dinamiche piuttosto estreme, come estremi sono sempre gli elementi di punteggiatura, le chiusure e aperture “fraseologiche”, caratterizzate da cesure nette, fragorose e gestuali a rimarcare il significato della “lotta”, punteggiature che incorniciano “frasi” tendenzialmente brevi grazie alle quali si articola, come già detto, un pulsante senso del ritmo.
Di particolare spessore a mio avviso è il lavoro sul timbro, per lo più sul registro medio acuto, che da suoni fissi articola appunto una cangianza timbrica, quasi una “melodia” dei timbri, sfruttando al meglio il polimorfismo del bayan, in combinazione con le diverse modulazioni elettroniche, dalla ritmica sempre pulsante, fino alle diverse alterazioni del suono stesso date da plurime forme di vibrato, ribattuti, oscillazioni del mantice ecc. che producono sinuose e brulicanti geometrie, in cui il suono elettronico si con-fonde con il suono acustico fino alla loro indistinguibilità, e una tessitura dal flusso continuo con una sintassi impeccabile.
Un flusso che sfocia, come climax del pezzo, in una esplosiva situazione accordale caratterizzata da scarni accordi isolati del bayan, differenziati timbricamente, in associazione con aspre masse elettroniche. Il risultato sembra esprimere una sorta di monumentalità, lo scheletro, le colonne di una architettura templare, uno spazio sonoro sacro, in forma di rovine, che sfuma poi in una atmosfera distesa, quasi intima, una riflessione della coscienza su se stessa, legata forse all’Hyperion holderliano, che porta lentamente la scena a spegnersi, letteralmente, forse nella consapevolezza di una impossibile armonia.

EG: A che cosa mira il pezzo di Ghisi? Sono stato letteralmente affascinato da un passaggio della tua esecuzione in cui ci sono delle reiterazioni velocissime?
GS: Sin dall’inizio, dalle prime bozze di partitura ed elettronica, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a ciò che mi sembra si possa considerare come una sorta di riflessione musicale, sia del punto di vista compositivo che dal punto di visto interpretativo strumentale, sull’annoso, millenario, problema filosofico del rapporto tra libertà e necessità. Spero se ne possa capire il senso qui di seguito, precisando che le mie considerazioni hanno origine e rimangono all’interno di un punto di vista interpretativo.
Il tutto sembra essere costruito secondo una dimensione binaria, discesa e interpunzione, secondo il contrasto tra un movimento-frasi musicali discendenti tendenzialmente in rallentando (quasi sempre sul registro medio acuto) e l’interpunzione di queste “frasi” che assume un vero e proprio valore strutturale costituito da un cluster sul grave che attraverso un certo tipo di oscillazione del mantice “simula” un battito d’ali.
Riempie questa dimensione strutturale una coloritura timbrica, data dalla combinazione tra elettronica e strumento acustico, soprattutto nella prima e ultima parte, a mio avviso di rara, rara bellezza, soprattutto se confrontata con la tradizione elettroacustica.
Ora, la produzione di tale bellezza è resa possibile grazie a una richiesta di sincronismo tra elettronica e strumento acustico, volta a produrre una con-fusione tra le due dimensioni, che definirei “feroce” e “crudele”. Una costrizione richiesta all’interprete che quasi ci porta ad intercettare alcuni temi del post-umano. Ecco, una impossibilità che tuttavia ho accolto come un invito, quello di provare ad abitare un estremo e a coltivarlo.
In realtà, ritroviamo diverse forme di esasperazione che qui portano l’interprete a sperimentare il senso del limite, la “crudeltà” che ne consegue, e la ricerca di un possibile equilibrio tra libertà e necessità. Una sperimentazione che assume valore estetico dell’opera per quanto forse non completamente trasparente nel corso della performance. In particolare, il sincronismo tra l’elettronica e la parte acustica, di cui abbiamo già detto, la complessità ritmica (articolazione che ha origine anche credo dall’alta formazione scientifico-matematica di Daniele Ghisi) e le velocità richieste, la necessità di eseguire (come mia scelta) la punteggiatura di cui parlavamo prima, il battito d’ali, con il massimo di impegno fisico, senza alcun controllo, nessuna economia nella distribuzione dei propri sforzi, solo dispendio. Quel fremito, quello slancio, cha ha in sé il contrasto tra libertà e necessità, si afferma così come vissuto del corpo, in una reiterazione che porta, “deve” portare a uno stress fisico, una stanchezza in qualche modo non gestibile, uno stress che a mio avviso deve risultare evidente, trasparente, come pura verità di quanto accade musicalmente.
Mi chiedevi anche delle reiterazioni velocissime. Con loro arriviamo all’ultima parte. Forse, il momento di un possibile volo. Qui, alle frasi discendenti precedenti si sostituiscono movimenti ascendenti, con velocità quasi proibitive, in cui il bayan e l’elettronica si rincorrono continuamente, a volte si sovrappongono e si sincronizzano, e si scambiano i passaggi, nel dispiegamento di una coloritura timbrica la cui qualità abbiamo già avuto modo di apprezzare, fino a che il click (che detta “ferocemente” il sincronismo) si interrompe, e rimane una ultima “volata” riservata al solo bayan (una “polifonia” tra i movimenti ascendenti del manuale destro e un movimento discendente del manuale sinistro), eseguita non proprio il più veloce possibile ma sicuramente più velocemente di quanto ci aveva fatto sentire l’elettronica (la partitura non lo prevede, prevede 10 bpm in meno), forse come una infantile affermazione di libertà dell’interprete che consapevole di questo, autoironicamente, decide di chiudere le ultime note in levare, in rallentando e sfumando, con tre alzate di spalle, come fosse tutto un gioco per bambini.

EG: In Hight Light Night fai un lavoro importante, da una parte ci sono delle linee melodiche di cui non ho intercettato il significato, dall’altra una lotta con dei contrappunti ritmici ricreati dall’elettronica che fanno pensare ad associazioni di techno music. Che c’è di vero?
GS: Sì, sempre più, nella musica d’arte colta contemporanea si va sperimentando l’assorbimento e la trasfigurazione di immaginari sonori “altri”, come d’altronde è sempre stato, non più e non solo esotici e/o folkorici ma soprattutto pop.
E ancora di più questo è reso possibile con la digitalizzazione del suono, dei paesaggi sonori che abitiamo, che per definizione si prestano a processi di manipolazione ed elaborazione mai raggiunti prima.
Quella di Pasquale Corrado è un’opera che si distribuisce in tre zone energetiche, un’opera in cui la temperie espressa dal titolo si manifesta sin da subito grazie ai forti contrasti dati da un registro grave e aspro, tanto del bayan quanto dell’elettronica, e i respiri ansimanti del bayan stesso (prodotti dalla valvola dell’aria), anche de-territorializzati dall’elettronica. Una temperie che si manifesta appunto sin da subito con una ritmica incalzante, ruvida e ansimante e che ben presto si trasforma in iterati “giochi” di oscillazione del mantice, bellow shake-ricochet in combinazione, dalla complessità ritmica mai sperimentata prima a cui si aggiungono cambi di timbro, cambi di registro, azionati col mento, rapidissimi e continui, che dettano a loro volta anche una evidente ritmicità fisica, con l’elettronica che sembra riprodurre un’ombra di quanto suona il bayan, quasi fosse un elaborazione in tempo reale. Una inventiva, a mio avviso, quella di Pasquale Corrado, legata a questa tecnica di oscillazione del mantice, senza precedenti.
Si affermano anche qui situazioni limite, l’esasperazione e soprattutto il senso del limite fisico. La forza per produrre quegli effetti ma soprattutto l’iterazione così prolungata, volendo poi lavorare su dinamiche piuttosto esasperate, spingono al limite le mie possibilità fisiche. E nonostante i mesi di studio non sono riuscito a a garantirmi il fatto di poter arrivare sempre alla fine di questa parte. Ho una percentuale di circa il 20% di insuccesso, la stanchezza non è più gestibile, prevale e devo fermarmi. In questa prima esecuzione ho deciso di accettare il rischio di non farcela, non avendo voluto far modificare la partitura, ma credo che questo rischio rimarrà, per scelta, come sentimento estetico che celebra la tensione e la verità dell’opera stessa, del concerto e della performance.
Sorvolo sulla seconda zona energetica e passo direttamente alla terza, che si apre appunto come dicevi tu con un complesso set di batterie elettroniche che richiamano la techno music, portate avanti fino alla fine, a cui fa da contrappunto uno strumento acustico che cambia il suo “idioma”, non più un aerofono a mantice ad ance libere ma uno strumento a percussioni. Ancora una manifestazione di forti contrasti, in questo caso tra la dimensione non umanista, inorganica, della techno, che in parte, solo in parte, assume anche una funzione aneddotico-narrativa, e l’energia fisico-percussiva del performer-bayan, calore e vertigine insieme, una combinazione in cui mi sembra emergere quella ricerca di un eccesso e di una alterazione come conoscenza di sé propria di un viaggio notturno, come il titolo dell’opera sembra evocare.
Al beat elettronico (nella cultura dance solitamente predisposto per stimolare reazioni organico-sensoriali eccessive) si contrappone dunque uno strumento acustico che produce puri pulsi di energia fisica, un’energia senza compromessi, anche senza compromessi strumentali, quelli legati alla fisicità dello strumento acustico – del resto lo stress fisico è ricercato in questa dance elettronica. Difficile trovare l’equilibrio in queste iterazioni prolungate, e salvaguardarsi, salvaguardare lo strumento che si suona, non è questo lo scopo. La partitura e la volontà vanno verso altre direzioni e si incespica sulla rottura del bayan.
Ostacolo occorso più volte nelle fasi di studio, così come durante le ultime prove prima del concerto. Un altro elemento di rischio che ci vogliamo tenere quale verità di Hight Light Night. Durante il concerto il mio volume, il volume del mio strumento, rispetto alle prove, è aumentato di 3 db grazie a una mia maggiore intensità fisica. Per fortuna, è andata bene, siamo arrivati alla fine senza incidenti.

Foto XY


Foto Dino Santoro

EG
: Su cosa hai basato il tuo Postludio? Ci sono dei riferimenti a composizioni precedenti nel tuo repertorio? Come è tecnicamente sviluppata la parte elettronica?
GS: Siamo all’ultimo pezzo del concerto. Si tratta del mio primo approccio alla composizione. L’elettronica è davvero minimale. Un processo di elaborazione, su supporto e live, fondato quasi esclusivamente su 17 linee di ritardo a cui sono combinati lievi, quasi impercettibili, elementi di filtraggio, con una spazializzazione in quadrifonia che lavora su scarti di ampiezza, sempre minimali. Il tutto gestito da un patch realizzata da Stefano Ciccotelli e rivista da Vincenzo Procino.
Dal punto di vista compositivo la prima cosa a cui ho pensato è stata quella di tenere sotto controllo il mio essere uno strumentista, ovvero non nascondermi dietro la pratica strumentale. Il mio intento era quello di mettermi in gioco nella composizione senza far troppo affidamento sulle conoscenze dello strumento che suono. Il che ha spostato la mia attenzione principalmente alla possibilità di sviluppare una qualche consapevolezza formale, strutturale e capacità di gestione di una durata temporale a partire da materiali musicali e dal loro “sviluppo” e articolazione. Dunque, attenzione agli aspetti compositivi principalmente e riduzione degli elementi legati alla tecnica strumentale. Trovo che sia stata  una scelta fondamentale quella appunto di ridurre al minimo l’uso del mio repertorio in termini di tecnica strumentale, di tecniche estese. Sotto questo aspetto siamo davvero a dei livelli minimi: l’utilizzo di un range di altezze limitato, la regione medio acuta, non più di due ottave, l’uso di un unico registro, struttura intervallare minima, cromatica, microcromatica, piccole e minime gestualità ecc.
Si è trattato appunto di lavorare sempre sui limiti, ma in questo caso per sottrazione.
Il che mi ha portato, come hai intuito tu, sì, da una parte a stimolare un profondità di ascolto, forse tracciando una linea di “continuità” con il deep listening della Oliveros – lo stesso processo di elaborazione elettronica è piuttosto tipico della Oliveros – dall’altra a sviluppare il senso della “misura”, del controllo, dell’economia del gesto, tanto del gesto musicale quanto del gesto fisico (e penso si capisca quanto importanza abbia per me appunto anche il gesto fisico), producendo una sorta di danza musicale e fisica rarefatta e minimale che assume, se vogliamo, “toni” spirituali.
Sembra l’opposto della “ferocia” e “crudeltà” di cui abbiamo parlato prima. Ma probabilmente solo perché l’estremo, il limite qui non si manifesta esteriormente ma è per lo più vissuto interiormente, “like a prayer, from a sideral landscape”, che è il sottotitolo di Postludio.
Mi è sembrato il modo migliore per chiudere il concerto.

EG: Autori come la Gubaidulina o in Italia come Sbordoni, hanno usato il bayan per caratterizzare un’area di silenzio “relativo”. Tu invece vuoi riempire gli spazi di note e questo induce una trasformazione del tuo ruolo di esecutore, molto più attivo di un performer classico-tradizionale. So che in questa sorprendente attività di performer c’è una ricerca particolarissima che arriva dalla tua preparazione universitaria nella sociologia e nei linguaggi espressivi. Mi farebbe molto piacere se qui potessi spiegare quanto più dettagliatamente questo tuo specifico interesse e i risultati che hai raggiunto.
GS: Il riferimento alla mia attività di ricerca sociologica e sui linguaggi espressivi credo che prima di tutto mi offra una consapevolezza su ciò che faccio, una articolazione ed elaborazione che inevitabilmente si nutre di una pluralità di risorse linguistiche e artistiche. Sicuramente poi alimenta quell’attitudine alla ricerca anche in campo musicale. Ecco, problematizza il mio compito, tende a portarlo verso una sperimentazione di sé e dei linguaggi, faticosa, perché per me necessita di tempi lunghi, ma direi entusiasmante; una sperimentazione in grado di alimentare quell’idea di “militanza” della ricerca espressiva e artistica probabilmente “inutile” (e non certo rivolta al successo nel mondo) ma assolutamente necessaria, prima di tutto per se stessi, per l’incredibile ricchezza che questa “militanza” offre alla coltivazione di sé e poi forse per i diversi mondi che abitiamo, minoritari sicuramente, ma non per questo minorati.
Dal punto di vista interpretativo performativo mi sembra che più volte tu abbia sottolineato il mio coinvolgimento fisico corporeo nella realizzazione delle opere musicali.
Ecco, è un elemento particolarmente significativo per il mio percorso di ricerca interpretativa, una ricerca in cui l’attivazione fisica corporale non assume solo un significato funzionale ma anche, almeno negli intenti, espressivo ed estetico. Non si tratta solo di un coinvolgimento emotivo del corpo, “intuitivo”, “spontaneo”, che facilmente sfocia nello stereotipo e nel cliché, ma la ricerca consapevole di una dimensione espressiva che in qualche modo si avvicina al “teatro strumentale”. Non sento di avere riferimenti in questo, o termini di comparazione, su cui misurarmi e confrontarmi. E’ un lavoro costante e quotidiano che si attiva a partire dalle opere con cui mi confronto, che devo realizzare. Un lavoro che nasce direttamente dal suono, prima di tutto dal coinvolgimento fisico necessario alla sua produzione, sui modi di attacco, durata e rilascio, sulle loro diverse sfumature, che possono trasfigurare in espressione, e poi dalle risonanze che il suono stesso produce in me, dentro di me e nella mia fisicità, che inizialmente lascio scorrere, lascio andare, solo per capire cosa mi succede, cosa il suono stia producendo in me (lo sviluppo di una coscienza dell’ascolto, appunto una sorta di deep listening, un ascolto integrale) ma che poi nel corso del tempo vanno a definire il cosa e il come lascio emergere, lascio trasparire. E’ dunque una ricerca che non aggiunge un elemento esterno alla musica che interpreto, ma al contrario si afferma quale risultato che si genera dal riconoscimento della sua stessa forza, dal suo “potere”, quello che emerge nel momento in cui poniamo il corpo in una condizione di ascolto consapevole, in qualche modo di “passività” e di abbandono proprio mentre si sta suonando. E’ davvero enorme nel mio tempo di studio il tempo dedicato all’ascolto, solo all’ascolto, a sperimentare in me quella condizione di passività, mentre studio, mentre suono, in cui lascio che si affermi l’energia della musica. Ed è ancor più affascinante per me collocare questa ricerca all’interno della musica elettroacustica.
Sì, fondamentalmente, in questo mio percorso che sembra avvicinarsi al “teatro strumentale” l’attivazione espressiva del corpo, il movimento, la dimensione postulare, gestuale trova tra i suoi scopi principali quello di manifestare la forza e la vitalità della musica. Un aspetto che mi sembra oltremodo significativo se ci riferiamo alla musica di ricerca, alla musica d’arte contemporanea.