Maalem Mahmoud Ghania e la gnawa music

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Street in Marrakesh, Morocco - Source Own work Author Dudva - Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license.
Indiscutibile è il fascino provocato dall’accostamento della musica ai cosiddetti riti spirituali. Al contrario della scienza, impegnata nell’evitare qualsiasi approfondimento su temi non proponibili per una vera ricerca, le arti (e la musica anche) hanno invece riempito l’immaginario della rappresentazione, stabilendo principi, teorie e rapporti di collegamento con entità invisibili; questo processo è stato messo in pratica in vari modi, secondo gli stili dei musicisti. Ma ciò che importa è che spesso la saldatura è avvenuta connettendo la musica alla vita sociale, un tonfo ancestrale che ripropone tradizioni antiche.
Una misconosciuta etichetta di Brighton, operante nel settore della wordl music, ha pubblicato a settembre scorso Colours of the night, un album di Maalem Mahmoud Ghania (1951-2015), il più grande e visibile portatore di musica gnawa, un genere musicale particolarmente praticato in Marocco ed alternativo al berber. Gnawa è l’accesso musicale ad un vero e proprio cerimoniale tuttora molto diffuso in Marocco, nelle sedi appropriate, e combina musica tradizionale (con gli strumenti tipici del gimbri e dei krakebs), canti di invocazione, danza ed un surreale rito di connessione con gli spiriti; in molti hanno visto tale rituale come un equivalente delle esortazioni blues e gospel degli afroamericani, un elemento teorico che ha spinto molti musicisti e jazzisti a frequentare Ghania e quelle zone, per trovare punti di contatto. Randy Weston è stato uno dei primi a stabilirsi in Marocco per fondare una sorta di biblioteca della tradizione sul gnawa e sulle sue innumerevoli sfumature rappresentative, sebbene i due collegati progetti discografici ufficialmente dedicati al genere gnawa fossero timidamente imbevuti del suo intervento (la scena viene dominata dalla congrega dei The Splendid Master Gnawa Musician of Marocco). Una messa a fuoco ulteriore sulle possibilità intersettive tra gnawa e spiritual jazz è venuta quando Pharoah Sanders si recò ad Essaouira per portare avanti una serie di house concerts proprio con Ghania, immortalati in un lavoro del ’94, dal titolo The trance of the seven colors, in cui i due musicisti venivano accompagnati da una sorta di orchestra di strumenti tradizionali (l’Hamadcha of Essaouira) e coralità espansa in tema, sotto la supervisione produttiva di Bill Laswell. Libera improvvisazione e gnawa non si erano mai avvicinati così tanto, un esperimento, purtroppo messo nel dimenticatoio anche nella carriera di Sanders, che venne replicato con forza decontestualizzatrice qualche anno più tardi da Peter Brotzmann nei Wels Concerts (assieme sempre a Ghania ed Hamid Drake). Sono lavori bellissimi, di un’attualità sconcertante, dei modelli di lavoro che lanciano un sasso in avanti in questo specifico tipo di rapporti cercato nei riti gnawa, penso per nulla esaustivi.
Quanto all’importanza dei colori, essa è diretta conseguenza dell’abbigliamento profuso nelle esibizioni: abiti con diverso colore presuppongono uno stato emotivo specifico, da utilizzare come transito umano per addivenire ad un confronto con le presenze, con le entità soprannaturali; ciò che si invoca è un riequilibrio del corpo ed un ripristino completo della sanità psico-fisica, un obiettivo che talvolta viene fornito sotto forma di brandelli di tradizione (uomini vestiti in tema ma che funzionano più come souvenirs turistici), sovente incontrati per le strade di Marrakech. Ghania, scomparso nel 2015 nella più totale indifferenza del mondo dei media, era il maestro del gnawa, la figura prescelta per rendere la musica esplorabile nei suoi fini. Non c’è dubbio che Colours of the night rispetti in pieno un bagaglio culturale inamovibile, ma d’altronde il potere del gnawa sta tutto nei tiraggi di quella corda di gembri e nella sonicità percussiva calcolata degli avventori, sortendo lo stesso effetto di una trance psichedelica occidentale (ma costruita con mezzi nettamente meno sofisticati).
Come successo ad altri sub-generi mediorientali, anche il gnawa ha dovuto subire i maltrattamenti delle ritmiche occidentali e non sono mancati i tentativi di produrre delle fusioni di vario genere; ma più che i remix che oggi si impongono nell’ascolto indistinto (non utili per me), sembrano più seri i tentativi di vitalizzare il gnawa producendo varianti negli strumenti tradizionali; è quanto sta facendo Hassan Hakmoun, un musicista che si propone di modificare gli effetti ipnotici della gnawa music per trovare nuove forme di espressione; cresciuto sotto il pensiero e i mezzi di Peter Gabriel, Hakmoun ha anche coinvolto jazzisti come Don Cherry, Adam Rudolph (in Gift of the Gnawa) e Steve Coleman; quando non si pone lui stesso come improvvisatore al gimbri (spostando di fatto l’ottica della tipologia dei rapporti), Hakmoun ha di fatto smorzato il paradiso dei sogni della trance gnawa, per avvicinarsi a quei monoliti ritmici, che hanno caratterizzato il sound da combattimento di buona parte della world music di successo (vedi Unity).