News from Leo R.: una triade di formazioni svizzere e un canovaccio poetico russo

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La recente tornata di cds della Leo R. mostra contributi musicali che provengono soprattutto dalla Svizzera e dalla Russia: per la Svizzera si tratta di considerare una nuova prova del quintetto dell’Ensemble 5, più due interessanti trio con motivazioni e stili opposti; per la Russia, il pianista Simon Nabatov ci sorprende ancora con due bellissimi omaggi all’arte e alla letteratura del suo paese, tra repechage assolutamente unici del futurismo russo e poesia proveniente dal fronte di guerra.

 

L’Ensemble 5 potrebbe efficacemente sostenere le teorie del sociologo Gustave Le Bon in merito al concetto di “azione collettiva”: il francese nel 1895 cercò di giustificare la diversità dei comportamenti dei singoli, quando si essi trovano ad affrontare atti di varia natura (anche creativa) immersi in un collettivo; ciò che emerge è una trasformazione degli individui, che psicologicamente sterilizzano la loro coscienza nel gruppo, facendo sorgere dal nulla un’immacolata anima del collettivo. E’ vero che Freud, qualche anno più tardi, criticò tale tesi, ritenendo che l’anima risultante fosse più l’effetto della necessità di ritrovare un pensiero dominante unico, tuttavia un equilibrio tra le tesi dei due psicologi sta certamente nei numeri, nella quantità di persone che possono essere protagoniste dell’aggregazione: 5 è probabilmente un numero perfetto e consono al collettivo svizzero per ottenere l’effetto trasmigrativo.
In queste pagine l’Ensemble formato dal batterista Heinz Geisser è stato sempre magnificato da recensioni particolarmente cariche di emotività e significato: tutte le pubblicazioni discografiche (sempre prodotte dalla Leo R. di Feigin) rappresentano un sano esercizio di bellezza, una circostanza a cui il quintetto Geisser (bt), Blumer (cb), Staub (piano), Morgenthaler (tr.) ci ha abituati senza mai farci provare assuefazione; quell’azione di gruppo è una combinazione autentica dell’improvvisazione tagliata a misura dai partecipanti, possiede gli elementi giusti per imporsi in qualsiasi situazione, perché espressione di una libertà jazz che non conosce mai l’usura.

The collective mind contiene 8 pezzi di musica splendidamente vissuta, dove le manovre dell’improvvisazione nascondono scenari; tra le tecniche proliferano alcune che entrano in simbiosi con quelle altrui: le variazioni poliritmiche di Geisser accompagnano i borbottii di Morgenthaler, le pulsazioni elastiche di Blumer, nonché le parti pianistiche di Staub, che lavora su gamme stilistiche differenti (si va dai veloci accenti tayloriani alle silenziose intonazioni, dagli ostinati alle modulazioni a settime scalari).

Gli anni settanta continuano ad essere una fonte d’ispirazione per molti artisti. Nella Svizzera francese, il chitarrista Vinz Vonlanthen ha imbastito un trio che di alcuni moti di quegli anni fa tesoro: assieme alla pianista Florence Melnotte e al batterista Sylvain Fournier, Vonlanthen ha tirato fuori un progetto d’intersezione che cerca di costruire innesti tra disco music, jazz e tracce specifiche di progressive, attualizzate secondo una visuale improvvisativa. Il trio Oogui (la denominazione prende origine dalla corrispondente parola giapponese che significa ghiottone) è un tributo sui generis alla dance di quel periodo, con desinenze e rimandi musicali piuttosto chiari a molti personaggi: da Travolta (il cd si intitola Travoltazuki, con la parte -zuki che ironicamente ne penalizza la portata) alle due cantanti delle Taste of honey (l’iniziale Mupulupu riprende quasi in parodia il Boogie Oogie oogie, che costituì il loro successo), fino a giungere ad altri più celati sotto le caratteristiche presentate dalla musica, penso al Van McCoy di The Hustle e al Born to be alive di Patrick Hernandez. D’altro canto, sareste in errore nel pensare solo a questo per il progetto Oogui: in moltissimi intervalli del cd, se state attenti, sembra di risentire i cambi di tonalità del prog degli Yes, le loro articolazioni, senza che ci sia un’aderenza chitarristica specifica da parte di Vonlanthen; mentre il jazz e l’improvvisazione cercano di dominare le strutture, attraverso melodie, ritmi di base, interludi e sviluppi. Quello di Travoltazuki sembra un atto di sciacallaggio che non risparmia nessuno, nemmeno un personaggio amatissimo come Claude Francois, ma è fatto a fin di bene perché la distorsione controllata su synths e ponti della chitarra elettrica è un modo di creare una configurazione che possa convincere anche i detrattori, quasi un tentativo di far convivere disperatamente l’impronta melodica tradizionale in strutture che non nascono a questo scopo.

Completo la parte svizzera con Espresso Galattico del trio Jurg Gasser (sax, Peter K Frey (contrabbasso) e Dieter Ulrich alle percussioni (Gasser 3): qui rientriamo in una filosofia piuttosto consueta dell’improvvisazione libera, per 3 artisti da cui si possono attingere solo buone informazioni. Espresso galattico vive di un bel clima istintivo, con molte estensioni, trascinamenti e spezzettature che vanno inquadrate nella ricerca espressiva dell’improvvisazione, tra strappi volutamente rappresentativi di situazioni limite, fastidiose immagini neurali che comunque hanno una loro presenza, realtà dell’accadimento. C’è un po’ di jazz in canna in Slow fox, ma complessivamente Espresso Galattico è una sorta di appezzamento della distonia sonora, un movimento che a tratti può far pensare di restare intrappolati nelle sabbie mobili.

Ciò che musicalmente è stato classificato come futurismo russo agli inizi del novecento è qualcosa che mette dentro una serie di novità su scale, accordi, rapporti seriali delle note, ostinati, microtonalità, dadaismo, rumorismo (per una disamina puoi consultare un mio vecchio articolo qui); in quegli anni nessuno però si sognava di indagare più a fondo su una stretta ricognizione tra arti ed in particolare tra tipo di linguaggio usato nella poesia e canto. Per fare questo bisognava arrivare alla frantumazione profonda del canto oltre che della musica: la spinta verso le peripezie e i salassi del canto improvvisato è arrivata più tardi, ma nessuno finora aveva pensato ad un progetto musicale che facesse da involucro a quello strettamente funzionale tra poesia e vocalità concentrata sul futurismo sovietico; è quanto il pianista russo Simon Nabatov e i suoi 4 collaboratori (Blonk, Gratkowski, Schmickler, Hemingway) hanno organizzato per soddisfare l’appassionata ricerca letteraria e musicale sull’argomento.
Readings – Gileya revisited è un lavoro che riporta alla nostra memoria i maggiori artefici del contesto poetico russo di quegli anni (un vero e proprio cambio di mano nei postulati ideologici della poesia romantica russa), in particolar modo Mayakovsky, Kruchenykh e Khlebnikov, tutti fautori del linguaggio zaum, divergenza delle regole sintattiche e morfologiche della lingua russa. E’ un neologismo dove za sta oltre, e um sta per mente, dove lo scopo è quella di liberare la parola dal senso logico e proiettarla in un dinamismo verbale, che è lo specchio di quei tempi. Dal punto di vista musicale tutto ciò viene impostato dando uno spazio proverbiale a Jaap Blonk, che è il vero catalizzatore del lavoro: in un prodotto che sembra fatto apposta per lui, Blonk è in grado di rendere quell’acriticità sonora delle poesie ed assicurare un’interpretazione ontologica dei testi, coadiavuto da un clima di prevalente atonalità, di manovre estensive mirate sugli strumenti (con Frank Gratkowski altissimo su sax e flauto), di elettronica votata alla distorsione (ottimo il lavoro al live electronics di Marcus Schmickler); c’è spazio anche per un ritorno di tonalità, con Nabatov sugli scudi, nelle finali Shokretyts e Bo-beh-obi, due esempi di pratica trans-razionalista, magnificamente trasformati in una struttura improvvisativa ad hoc.

L’altro affondo di Nabatov è nell’incredibile storia di Isaak Babel, giornalista e scrittore russo che, per i suoi reportages dalla guerra tra Russia e Polonia intorno al 1920, venne immediatamente considerato come personaggio scomodo al regime: quei reportages divennero un libro rimasto ben impresso nella letteratura russa per i suoi orrori, ossia Red Cavalry; Babel era di Odessa, un paesino dell’Ucraina del tutto speciale, che Nabatov individua come un posto di importanti scrittori e di una strana convivenza tra russi, ucraini ed ebrei. Anche qui l’improvvisazione si impossessa del senso della scrittura e Nabatov si circonda ancora di Gratkowski, Schmickler ed Hemingway, mentre sostituisce Blonk con Phil Minton alla voce, decisamente più idoneo dell’olandese nel trovare un sostegno ad intonazioni vicine all’opera, all’inflessione beckettiana e ad una serie di peripezie vocali che accompagnano le narrazioni. La musica, dunque, in Red Cavalry scorre nelle righe, jazz ed evoluzioni letterarie degni di un sontuoso readings, ma con un senso della drammaticità e dello sviluppo logico poetico non posseduto nell’esperimento sul futurismo russo.

Questi due cds di Nabatov non sono due casi isolati di trasposizioni musicali di impianti poetici: nella discografia generale di Simon alla Leo R. il pianista russo ha già avuto di mettere in evidenza la sua passione per la letteratura e la conoscenza ampia della letteratura russa: si tratta di Joseph Brodsky in Nature Morte, di Mikhail Bulgakov in The master and margarita e di Daniil Kharms in A few incidences. Tuttavia, in questo lavoro di trasformazione, Simon si dimostra imbattibile. Leggere le note di Stuart Broomer.

 

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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.