Un simposio per il contrabbasso: le basi di una nuova era (parte quarta)

0
800
Barre Phillips: caratteri salienti e discografia in solo e per Ecm R.
Barre Phillips (1932) è un “originale” nella storia del contrabbasso. Negli anni della sua prima gioventù, quando era poco più che ventenne, si cibò del jazz che imperava in America, con figure innovative che stavano dando il loro contributo nella fase bebop del genere; i ventenni come Phillips non potevano fare altro che ammirare le soluzioni di artisti come Charlie Mingus, Scott La Faro o Charlie Haden; il contrabbasso si stava aprendo all’enfasi solista, sebbene camminasse con molta parsimonia di fianco alla funzione ritmica da tempo riconosciutagli. Gli stimoli arrivavano anche dalla musica classica, dove contrabbassisti come Turetsky o Druckman avevano avuto il plauso di compositori che, più o meno consciamente, avvicinavano il mondo della composizione con quella dell’improvvisazione libera (per ciò che concerne gli Stati Uniti si pensi a Cage o alla Oliveros). In America contrabbassisti come Barre Phillips o Dave Holland erano favorevolmente proiettati verso le intersezioni, con uno sguardo sull’Europa e su quello che stava accadendo anche lì; Phillips fu uno degli storici contrabbassisti che partecipò ad una delle prime sessioni ufficiali di nascita dell’improvvisazione libera, quando nel ’65 suonò il contrabbasso nella filarmonica di New York condotta da Bernstein; il pezzo era Improvisation for Orchestra & Jazz soloists di Larry Austin e Phillips comparse nella registrazione per la Columbia al posto di Richard Davis (il contrabbassista di Dolphy, Andrew Hill e del Van Morrison di Astral Weeks), che condivideva i concerti giovanili di Bernstein; tuttavia l’America non fu recettiva sul punto quanto gli europei e Phillips lo capì subito decidendo di vivere in Francia e di suonare spesso con gli improvvisatori inglesi. Nella sua lunga marcia dedicata alla musica, Phillips ha creato un suo idioma, ossia quello di una forma sperimentale di espressione, affine alla consapevolezza della natura umana, alle entità che ci circondano quotidianamente e ad una tipologia di cantabilità ottenuta lavorando tre ottave sotto l’intonazione normale. Barre raccoglie le vibrazioni del suo strumento, le conduce a buon sistema, e lascia anche un effetto armonico, quello che ci dà la possibilità di riconoscerlo tra i tanti. Sotto quest’ultimo punto di vista Phillips è differente da un Charlie Haden, è meno esplicito, più concentrato nel creare simbiosi aurali in cui le armonie o melodie si stabiliscono sotto il travestimento compositivo.
Tre le cose essenziali da dire sul musicista:
1) Phillips è uno degli artisti di rango della Ecm. R.: è presso l’etichetta tedesca che ha prodotto almeno l’80% del suo pensiero e il posto dove si rintracciano molti dei suoi capolavori artistici;
2) il modo migliore per rintracciare il suo stile è quello delle prove solistiche;
3) c’è una sensibile produzione discografica che accompagna la carriera di Barre: si tratta anche di direzioni particolari, registrazioni che si inoltrano (specie dai novanta in poi) nell’allargamento delle formazioni, nella scrittura per teatro e cinema e nelle collaborazioni vis a vis con molte celebrità dell’improvvisazione.
Dal momento che questo articolo nasce come spunto reattivo della sua ultima pubblicazione per Ecm R., mi sembra che questa sia l’occasione giusta per ripercorrere quantomeno i primi due punti del mio discorso.
Si parte da Journal violone, il suo primo solo nel 1968: primo vinile inciso per la minuscola etichetta Opus One di Max Schubel, un produttore che si preoccupava di pubblicare materiali di artisti poco conosciuti, Journal violone ci spiega in maniera ufficiale cosa sta accadendo nell’evoluzione del contrabbasso e quali sono le risorse che Barre utilizza nella sua libera improvvisazione; si intercetta subito l’idioma, dove il contrabbasso è capace di cantare, intonare brevi ritornelli di qualcosa che ci pare di conoscere, allo stesso tempo fare ragionamenti complessi, aprendosi alla riflessione e ad una sorta di dettaglio comunicativo frutto di un lavoro particolare del pizzicato lunga la cordiera. Si spinge anche alle risonanze forti, all’atonalità, è classicheggiante e timbricamente compatto allo stesso tempo; racchiude molte tecniche non convenzionali ad alta capacità simulatoria (sembra di ascoltare porte non oliate che si aprono, motori in accensione, etc.) e sfrutta l’ambiente acusticamente preparato della Parish Church of St. James’s Norlands di Londra.
Barre vuole subito sperimentare con un altro contrabbasso e trova conforto in Dave Holland: con lui registra un altro lavoro fuori dai tempi (Music from two basses, Ecm 1971), in cui i due Improvisation pieces conducono a simulazioni tipo sradicamento di chiodi o ad abrasioni varie, tuttavia tutto ciò che non risulta intonato acquista una dinamicità e una forza espressiva unica. Sentire Beans significa essere proiettati in una zona liminale del ricordo di una festa, mentre il canto diviene di nuovo esplicito nella linea melodica profusa in Maybe I can sing it for you; una morsa dantesca costruisce il terreno sonoro di Just a whisper. Mentre per Holland fu un esperimento unico, che non ripeterà più perché interessato a porsi nella linea aperta da Mingus, Phillips manterrà la sua impostazione, quella che guarda a Turetsky e alle sue accondiscendenze classiche.
E’ opportuno sottolineare che in questi album di jazz non se ne vede ombra. Bisognerà aspettare a For all it is(Japo 1973), dove Barre passa a 4 contrabbassi (Guy, Jenny-Clarke, Danielsson): gli umori sono diversi, poiché oltre ad accenti melodici jazz, si avvertono toni muscolari e passaggi eterei confinanti in uno strato classico; si sente la materialità degli strumenti e la pienezza delle condensazioni estensive. For all it is ha un sapore agrodolce, che immortala una session di gruppo che mette in linea tratti teoricamente inarmonici, dialogici e tratti sensitivi, quasi in preda ad una ricerca misericordiosa. Comuqne si fa fatica a capire di chi sono gli interventi.
Mountainscapes (Ecm 1976) è l’album con cui la libera espressione pensata da Phillips si unisce con il senso edulcorato e nostalgico delle produzioni Ecm: vengono richiamati John Surman e Stu Martin (con Phillips erano nello spavaldo free di Alors!!, un quintetto che annoverava anche Michel Portal e J.P. Drouet) per una spirituale composizione con inserti sintetici; quando non deve contenere la spinta di gruppo il contrabbasso diventa bucolico, imposta una volubilità molto coltraniana. Mountainscapes è un’accorta fusione che oggi andrebbe rivalutata per la progettazione degli spazi compositivi, che confermano comunque una visione torbida degli istinti di Phillips, che si confronta in qualche modo con l’elettronica da synth (Dieter Feichtner). Sulla stessa lunghezza d’onda è Three day moon (Ecm 1978) dove viene chiesto l’apporto di Terje Rypdal e Trilok Gurtu: il basso di Phillips sembra essersi molto orientalizzato, intimo, quasi alla ricerca di vibrazioni positive del cosmo, il suo contrabbasso si concentra su piazzole di configurazione sonora (trovate sulle parti dello strumento) che dilatano la parte sensitiva. Misterioso, fiero e imperturbabile è un oasi di grandi suoni, in un periodo in cui il vigore fusion è alle sue massime conseguenze.
Journal violone II (Ecm 1980), con Surman e la cantante Aina Kemanis, è una sorta di cancello del tempo; l’espressione è alla ricerca di un’anima antica, di una forma di fusione che richiama un dolce rinnovo del medioevo della musica, non per niente si poggia molto sul vocalizzo della Kemanis, che rappresenta il veicolo migliore per riaprire alla memoria vezzi rinascimentali e vocalizzi che ricordano gli influssi di Norma Winstone. Barre è un pilota che svolazza! Il successivo Music by (Ecm 1981) aumenta l’organico ai sax di Hervè Bourde, la batteria di Favre e aggiunge alla Kemanis la voce di Claudia Phillips, la figlia di Barre. C’è più spazio per il jazz, Phillips è più impegnato nel costruire una valida proposta compositiva che possa stare di fianco all’improvvisazione. Tuttavia c’è il sentore che sia persa per strada un po’ di creatività. Si viene subito smentiti da Call me when you get there (Ecm 1984) un trattato sulla bellezza della natura e e degli spazi che l’uomo è riuscito a creare attraverso città, strade, luoghi pubblici; l’atmosfera si divide tra la riflessione e l’agreste, richiama motivi irlandesi, profuma di boschi e vita in libertà; si avverte l’uso esteso dell’arco, qualche sovra incisione, mentre il pizzicato è intimista e traccia linee piuttosto melodiche, ma non è certo qualcosa che somiglia agli intimisti del contrabbasso. E’ piuttosto l’importanza della voce (in condizione simulatoria) e del suo timbro profondo che colpisce, immaginazione trasferita sullo strumento, linguaggio visivo (Highway 37 simula una sorta di ambientazione e movimento stradale), un po’ come fece Haden (mi scappa un ricordo vivo nel duetto con Metheny); non manca l’enfasi sperimentale con Winslow Cavern che insiste su registri glabri del basso, mentre Brewstertown 2 è di una bellezza adamantina, rischiara la mente e lo spirito.
Barre ritorna in solo per Camouflage (Les Disques Victo 1990), che capita in un periodo di ricerca di nuove combinazioni sonore. Le trame danno interesse alla scoperta, ritornano le estensioni ampie, libere e l’atonalità, nel cerchio di un’esperienza oramai grandissima. E’ il seguito ideale di Journal Violone I. Rispetto a quest’ultimo c’è la consapevolezza di aver dimostrato di poter impostare musica con creatività, sconvolgendo le regole della composizione istantanea. Registrato dal vivo al Western Front di Vancouver in Canada nel maggio del ‘89, Camouflage mostra un incupimento, è teso a recuperare qualsiasi effetto sonoro che proviene dal basso e si installa nello spazio circostante. In No exclusion compaiono inserimenti musicali di nastro preregistrato, mentre You and me è lavorata totalmente su legno, ponti e strofinamenti (quasi un flipper con suoni pazzeschi), finchè l’ottimismo si riacquista nella finale Around Again, l’episodio che più guarda dentro la carriera Ecm. Di questa corposa e strana magnificenza si nutre anche il duetto con Barry Guy in Arcus del 91 (Maya Rec.).
Con Acquarian Rain (Ecm 1992) arriva il momento di sperimentare più a fondo con l’elettronica; ciò avviene con la collaborazione di James Girodoun e Jean Francoise Estager. Dal confronto, il contrabbasso ne esce rafforzato, e in grado di produrre delle estasi sonore che i nastri non sono capaci di fornire. Ha un’aria disincantata grazie anche all’apporto aggiuntivo del percussionista Alain Joule. Sono molte le combinazioni e i suoni provati in questo contesto di trio con la sensazione di un clima glabro ma poco eccitante. Sono i giorni in cui Barre media tra colossi come Evan Parker, Paul Bley e i Maneri: al riguardo si può affermare che le registrazioni relative ammettono più mediazioni intuitive che passaggi ultramoderni. Ma in ogni caso propongono ottima musica, ai confini estremi di un jazz che guarda più ai rapporti che alla singola espressione.
Journal violone 9 è registrato negli studi di La Buissonne, Pernes-les-Fontaines, in Francia nel 2001 (per Emouvance R.) ed ha un’impronta simile a Camouflage, legno vivo che si ascolta, e un’officina della ricerca che in alcuni momenti sembra ricordare qualche artigiano di Battistelli (Borning Nellie’s fire o Windwalk). Piuttosto difficile è il reperimento dell’aspetto melodico.
Arriviamo, dunque, al recente End to end (Ecm 2018): un lavoro che fa della lentezza interpretiva il suo punto di forza; diviso in tre composizioni, è il dialogo che si presume definitivo e finale con lo strumento, probabilmente il motivo dell’ultimazione sta nel fatto che egli cerca risorse che non ha mai chiesto prima. Si diceva della lentezza che domina l’opera che non è da intendere come pigrizia, ma come articolazione di un’idea ragionata: la relativa, calma dinamica dei suoni e della loro organizzazione può condurre ad un uso più efficiente del rapporto tra suoni e silenzio, aprire degli scenari estetici speciali. Ci sono alcune combinazioni sonore fondamentali che si ripropongono durante il percorso, scelte per l’occasione: una è percussiva, tesa a creare armonia inaspettata o la sensazione dell’evento, del rito implicito; un’altra è incentrata sugli overtoni e sulla loro capacità di generare austerità di gran classe; un’altra ancora è bilanciata sulla potenza espressiva del pizzicato (gli inizi di Quest e la fine di Outer windows); il contrabbasso è un messaggero di Barre in un ordine del tipo: voce, sviluppo della richiesta, viaggio sonoro, ritorno in voce.
Quest – Inner door – Outer windows (uno dei tre pezzi presentati in End to end) potrebbe indicare proprio un passaggio graduale dello spirito, l’entrare in una dimensione attraverso i suoni e poi goderne in uno spazio definito. End to end non è un colpo di coda, piuttosto è il tentativo di approfondire aspetti in solo sfiorati ma mai messi in primo piano; il suo idioma è rispettato in un involucro differente. Certamente Barre sembra non aver rimosso nulla del suo splendido percorso interiore, quello descritto nella splendida poesia racchiusa nel cd Call me when you get there: in quella occasione Barre inciampava nelle foglie caduche, sondava la natura tra le pietre e gli alberi, ammirava le sponde del fiume, si interrogava sui corvi che viaggiano sui fili e soprattutto mostrava il suo nascondiglio, che è il suo spazio, il suo tempo, la sua sicurezza e il suo canto di ringraziamento. Outer windows finisce esattamente nelle indicazioni finali di quella poesia: la voglia di tornare a casa dopo un viaggio eccezionale.
_____________________________________________________________

Mark Dresser: un ponte fra città del mondo differenti ma ugualmente importanti.
Per introdurre in maniera congrua i caratteri principali dell’arte del contrabbassista Mark Dresser e commentare il suo ultimo lavoro in solo dal titolo Modicana (per Nobusiness Records), riprendo una parte di quanto scritto in occasione di una delle sue esibizioni a Bari lo scorso anno, a cui ho partecipato:
“…La presenza di Dresser in Italia mi permette di segnalare un’artista che non è mai stanco di progredire: chi conosce il contrabbassista sa come egli ha contribuito alla nascita e allo sviluppo del giro downtown newyorchese, inserendosi con una visione camerale degli approcci improvvisativi, in un momento in cui tutti incominciavano a cercarle. Sebbene le registrazioni siano arrivate un pò più tardi rispetto al top temporale del movimento americano, è bene ricordare la splendida ed innovativa esperienza dell’Arcado Trio, con altri due bigs come Mark Feldman al violino ed Hank Roberts al cello, che produsse due albums notevoli per la Jmt Productions a fine ottanta (Arcado ’89 e Behind the myth ’90), e prima di gettarsi in un mare di collaborazioni fu in grado di presentare alla comunità musicale il suo pensiero articolato in un cd solista nel ’95 dal titolo Invocation (per la Knitting Factory Works), che reputo ancora oggi uno dei suoi picchi creativi, tranquillamente inseribile tra i solo di contrabbasso più importanti in tema di free improvisation degli ultimi vent’anni (Mark ha ripetuto l’esperienza molti anni dopo con Unveil nel 2005 per la Clean Feed). Tra le collaborazioni mi sembrano più eversive quelle con Denman Maroney, Fred Frith e Ikue Mori, tuttavia quelle che preferisco fanno parte di quell’accostamento che Dresser ha profuso per sviluppare sonicità; in tal senso la collaborazione con gli ambienti accademici, diventata sempre più stringente, ha avuto un pinnacolo nel Sonomondo (Cryptogramophone 2000), la prospettiva di assieme cercata con la violoncellista classica Frances-Marie Uitti. Negli ultimi anni Dresser ha incrociato il suo lavoro di insegnante con un bellissimo progetto di improvvisazione corale, costruito su ensemble allargati o mini-orchestre, dando vita da una parte ad organici di suoi studenti a S.Diego, dall’altra gruppi professionali con tanto di musicisti affermati come in Nourishments(Clean Feed 2013) e Sedimental you (Clean Feed 2016); d’altro canto ha appoggiato brillantemente le visuali della cantante Jen Shyu e del pianista Simon Nabatov e partecipato attivamente alla composizione contemporanea tramite il compositore Lei Liang in Luminous…..”.
Modicana, il quarto episodio solista di Mark (dopo InvocationUnveil e Guts del 2010) è un Lp a tiratura limitata che raccoglie l’esperienza dell’uomo che riversa in arte sonora le sue sensazioni: si tratta di pezzi registrati durante il festival di Umea in Svezia nel 2016 e di altri pezzi registrati al dipartimento di musica di S.Diego nel 2017, tenendo ben in mente colleghi americani e colleghi frequentati durante i tours sui quali aprire uno scenario rivalutativo; esplicativo dei suoi orizzonti, Modicana esalta la natura interpretativa, un cerchio di soluzioni che partono da uno straordinario rapporto con la tastiera: penso che ci siano pochissimi contrabbassisti nel mondo che riescono a colpire/tirare le corde nella modalità di Dresser; ciò che colpisce è la definizione limpida delle note, anche nei casi in cui la velocità di esecuzione ne comprometterebbe l’esito (sentire cosa succede in Hobby lobby horse); ma è una delle qualità dell’americano, che in Modicana omaggia uomini e luoghi secondo la propria percezione, quella dell’improvvisatore che regola l’istante. I ritorni acustici e liminali di Invocation si ripresentano in Invocation Umea e Threaded (qui proposta in una nuova versione), mentre For Glen Moore(dedicata al contrabbassista degli Oregon) è uno splendido esempio di quanto si può ricavare da una compenetrazione dei ritmi e delle melodie.
Con Modicana si scende nelle terre siciliane e in ciò che è a ben ragione considerato come patrimonio dell’umanità: l’approccio di Dresser ad un ambiente che ha sperimentato in uno dei suoi più recenti viaggi in Italia, raccoglie l’istinto storico, l’aria e il clima di un posto che intercetta anche l’arte teatrale dell’antica Grecia: tutte le tecniche al contrabbasso vengono attuate per cogliere quell’intimo pensiero, qualcosa che risvegli la classicità e l’arte della rappresentazione (come avviene in Modicana Teatro Greco), simuli un processo (Modicana panetteria) o recuperi una propria estetica in mezzo ai discorsi diffusi tra la gente, quelli che restano in circolo nella memoria anche dopo un lungo periodo di tempo, magari passati nell’attesa di un caffè (Shakeratu non zuccheratu). Dresser in Sicilia ha trovato un valido esercito di contrabbassisti, tra i quali alcuni già vantavano meraviglie sonore mai dovutamente apprezzate (si pensi alle preparazioni di Sandro Sciarratta e al talking bass solistico profuso da contrabbassisti come Lelio Giannetto o Giovanni Maier).
Articolo precedenteUn simposio per il contrabbasso: le basi di una nuova era (parte terza)
Articolo successivoMelodia e vibrazioni: Perry Robinson
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.