The Play of Silence: In Conversation with Mirio Cosottini

0
874


[This article originally appeared in English in two parts in Perfect Sound Forever’s March and May 2017 numbers. It is reposted here with their kind permission.]
Silence is an essential part of music. This is true whether we consider it in its syntactic function—that is, in its role as an element constituting and making plain the order of musical events—or in its semantic function, which is to say, its role as an element contributing to the musical meaning of a piece. With his short book Playing with Silence: Introduction to a Philosophy of Silence, Italian composer/improviser Mirio Cosottini considers silence not only as an aspect of music, but as an important element at work in our interactions with environment and with others.
Cosottini’s multidimensional perspective on silence arises naturally from his background in academics and in musical performance. A graduate of the Academy of Music in Florence who subsequently pursued a doctorate in the philosophy of music from the University of Florence, Cosottini has composed music for dance, theater and film, and is an improvising trumpeter who co-founded the Gruppo di Ricerca Improvvisazione Musicale. His practical and philosophical sides are both well represented throughout the book.
Cosottini’s initial focus is on ways of thinking about silence in the context of performance practice. But he is just as interested in the implications of the many meanings, functions and possible uses that silence has in our lives in general. His book is thus a kind of user’s manual for silence in its different qualities and applications. It consists of a set of questions, suggestions and exercises formulated to stimulate the reader to think about the nature of silence—what it is, or can be, or can mean–and to incorporate the resulting insights into his or her artistic practice as well as everyday activities. Cosottini structured the book to contain one thought or exercise per page, and in order to allow the reader adequate space for reflection, recommends that he or she read one page per day. What emerges is a philosophy of action informed by the role silence can play in orienting us in the world and in relation to each other.
It may be that someone involved in creating and thinking about music is best positioned to ask more penetrating questions about silence. Music provides a firm and often revealing point of reference for framing questions about silence. It’s often through music that we confront silence as something to be confronted. In those gaps between notes, harmonies and other musical sounds, we become aware that the apparent nothingness that is the absence of sound is in fact something—a structure of experience that goes beyond music and permeates our lives, whether as a way of being aware of time or as a way of being receptive to the environment and to other people. The phenomenology of silence—the way a thing or situation appears to us as being silent or containing silence—is correspondingly complex. It may even be that for us silence just is a matter of phenomenology—an appearance emerging from the way attention is directed, for example, to contrasts within the audio field, as when we hear a silence in the aftermath of a musical crescendo, even while ambient sounds are present. Silence plays different roles and carries different meanings under different conditions, and many of Cosottini’s exercises are pointed towards letting the reader imagine or enact some of these different conditions in order to understand silence’s effect within them.
During late winter and early spring, Mirio and I conducted a transatlantic email conversation about silence and its implications for music and beyond. I reproduce it below, in the languages in which it was conducted. This conversation originally appeared in English in Perfect Sound Forever; I thank editor Jason Gross for permission to reproduce it here.
—-
DB: Silence I think is a fundamental aspect of music. To use an agricultural metaphor, it’s the ground on which music is cultivated. There’s a temptation to think of it as an empty ground, but if
MC: Concordo pienamente con te, se teniamo la metafora agricola. Ci rendiamo conto della ricchezza immaginativa del silenzio, se riflettiamo sul suo valore fenomenologico. Perlopiù il silenzio è stato considerato come una pausa fra suoni (mostrandone la funzione “grammaticale” all’interno del discorso musicale). Eppure esso può rivelarsi anche come un diverso modo di manifestarsi del suono, il suono in una forma diversa. Per fare un’analogia geometrica: un quadrato è diverso da un rombo, ma a partire dalle operazioni della geometria proiettiva, il quadrato e il rombo sono essenzialmente la medesima figura, una figura che ha subito una particolare trasformazione, ma che non ha compromesso le invarianze fondamentali. Dal punto di vista percettivo accade la stessa cosa. Il suono e il silenzio manifestano la stessa essenza se considerati secondo determinate invarianze strutturali.
La ricchezza del silenzio è un altro modo di vedere la ricchezza di trasformazioni che possiamo operare sul suono.
DB: I think that’s true. Consider how silence in the context of music takes on a musical color. At what point does silence uncolored by the memory of the music that has just taken place take over from the silence that still is colored by the music? At what point, and how, do we draw the boundary between silence as an upsurge in music and the silence that surrounds us in daily life?
MC: A mio avviso la tua domanda verte sui modi nei quali il silenzio si manifesta. Non c’è un unico tipo di silenzio, ma molti modi in cui il silenzio si presenta all’interno del processo musicale (compositivo, esecutivo, interpretativo, improvvisativo, ecc.). Prima di tutto dobbiamo considerare il nostro agire musicale, ad esempio quello improvvisativo. Cosa significa cogliere l’inizio di un’improvvisazione? cosa significa percepire la fine di un’improvvisazione? la risposta a queste domande fa luce sulla differenza fra il “silenzio-musicale” e il “silenzio-altro”. L’inizio di un’improvvisazione coincide con il primo suono? che differenza c’è fra iniziare e attaccare? cosa significa cogliere l’inizio di un’improvvisazione? Domande analoghe possono essere poste per quanto riguarda la fine dell’improvvisazione.
Immaginiamo una situazione di questo tipo: la linea tratteggiata indica il silenzio, poi il suono inizia mezzoforte, poi diminuisce d’intensità fino a scomparire per poi crescere di nuovo fino a mezzoforte, infine di nuovo silenzio.
 
In corrispondenza della “a” noi percepiamo un silenzio. Ciò che a noi interessa è analizzare l’inizio del suono dopo “a”. Si tratta dell’inizio di un nuovo suono oppure della “continuazione” del suono precedente? Nel complesso, percepiamo due suoni consecutivi oppure un unico suono che diminuisce e poi aumenta d’intensità? In quest’ultimo caso possiamo per analogia rappresentare il suono come una figura geometrica che ruota su se stessa. La forma che assume durante questa trasformazione è diversa ma la “figura” è la medesima:
Il suono subisce una trasformazione, “ruota su se stesso” e poi torna nella posizione iniziale. Il “silenzio sonoro” corrisponde a quel particolare punto di osservazione della trasformazione sonora che coincide con la sua forma “lineare”. I contenuti di coscienza non sono somiglianti (suono-rettangolo, suono-linea e infine suono-rettangolo) eppure sono la sintesi della medesima figura-suono! Simili caratteristiche sono proprie delle strutture invarianti, in cui alcune trasformazioni sono possibili rispetto a qualcosa che rimane invariato. Questo è il modo in cui intendo indagare il suono e i modi in cui lo percepiamo, compreso il silenzio. Dunque, non c’è un momento in cui il suono diventa silenzio, ma ci sono i modi in cui la percezione musicale si manifesta come suono e come silenzio. Ciò che dobbiamo guardare sono le differenze di struttura fra queste percezioni all’interno del processo improvvisativo. Tali differenze sono ciò che da senso al nostro modo di intendere cos’è il suono e cos’è il silenzio.
DB: Mirio, your addressing the phenomenology of musical perception gets to what I consider to be the heart of the matter. Silence is phenomenal, which is to say a feature of the world to the extent that the world appears to us as we disclose it through our practical and cognitive activities. And in order to disclose something as silence or in silence, it seems a certain degree of receptivity is called for.
MC: Ogni percezione implica un certo grado di ricettività, che ha a che fare con la questione delle sintesi passive, ovvero di tutte quelle operazioni percettive che non dipendono dalla nostra attività giudicante. Anche il silenzio, poiché ricade nell’ambito percettivo, è costituito passivamente, ovvero risponde a regole della percezione in generale. Ma a noi interessa capire il modo in cui emerge il silenzio e si struttura nella pratica musicale, e inoltre interessano le differenze che distinguono i vari tipi di silenzio. Ad esempio, in che modo si caratterizza il silenzio che precede l’inizio di un brano musicale e che cosa lo distingue dal silenzio che segue la fine di un brano musicale? Non c’è dubbio che il brano “condiziona” il silenzio che lo precede e lo segue. Inoltre, il tempo e l’immaginazione (come ciò che non appartiene ai meri dati fenomenici) giocano un ruolo importante nella percezione del silenzio. Tutte queste considerazioni ci spingono a sostenere che la percezione del silenzio implica un certo grado di ricettività, ma che questa non esaurisce il modo in cui un musicista (o un ascoltatore) percepisce il silenzio.
Facciamo un esempio: un gruppo di musicisti sta improvvisando. A un certo punto qualcuno esegue un suono. Tutti intuiscono che il brano sta finendo. Segue un silenzio, il brano è finito. Si tratta dunque di un finale improvviso, che tutti i musicisti colgono nel mentre che stanno suonando. E’ uno dei finali più eccitanti poiché arriva inaspettato e tutti si rendono conto (con una certa sorpresa) che il brano è finito. L’ultimo suono ha una particolare importanza, poiché segna il passaggio dalla temporalità musicale alla temporalità del silenzio. Quel suono appartiene a una temporalità e progressivamente inizia ad abbandonarla. Il silenzio successivo mantiene la temporalità precedente ma allo stesso tempo non le resiste. Le maglie del tempo si spezzano, quel suono annuncia un silenzio che già è presente. In questo silenzio l’immaginazione si arricchisce dei rumori del mondo che lentamente la trasformano e dissolvono la temporalità musicale. Il tempo finisce la sua corsa, si ferma e svela se stesso come il silenzio che percepiamo: un insieme di rumori, quelli delle sedie, del pubblico, dei musicisti che attendono l’applauso.
La trasformazione del suono in silenzio da parte del musicista implica ricettività ma anche un agire che costituisce i propri contenuti percettivi nel mentre che questi si strutturano.
 
DB: You mention silence in connection with temporality and for me, that raises an interesting question. It seems to me that when we approach silence in the context of time we uncover something essential about the way we experience time—as a continuum in which we seem to be a stable point, or as something “lumpy” and variable in the way it moves, even to the point of appearing static. All of which would seem to have implications for the way we experience music as listeners or participants.
MC: Sono d’accordo con te. Quel carattere grumoso (lumpy) di cui parli dipende dal modo in cui la coscienza esperisce i contenuti di coscienza e questo modo determina temporalità diverse. Immaginiamo vari tipi di emissioni sonore, vari modi in cui un suono può prendere forma. Guy Reibel, nel suo Jeux Musicaux (Vol.1) ne elenca alcuni: il “suono tenuto”, immobile, che non ha forma, aperto all’indeterminazione temporale; 
 
il suono “percussione-risonanza”, in cui l’energia è comunicata all’inizio nella forma “choc-diminuzione progressiva-estinzione”;
 
 il suono “crescente-decrescente” che corrisponde intuitivamente alle coppie flusso/riflusso, comparsa/sparizione, inspirazione/espirazione etc.;
 
il suono “all’indietro”, come il profilo inverso al suono “percussione-risonanza”;
 
e infine il suono “accellerare e rallentare”,
 
 
in cui il suono aumenta o diminuisce il volume, non con una velocità costante, ma in modo del tutto innaturale. Ebbene, ognuno di questi profili sonori determina un silenzio seguente completamente diverso.
Ad esempio, il “suono tenuto” tende a dilatare il tempo, l’ascoltatore non riesce a prevedere il momento in cui tale suono cesserà, anzi, lo sviluppo stesso del suono pare arrestare il suo movimento (“tenuto” significa anche “trattenuto”, fermo). Il fluire del suono evidenzia la staticità del tempo. Quando il flusso del suono cessa (il suono termina) il tempo subisce un contraccolpo, e si spinge con forza in avanti, attrae i contenuti di coscienza nel presente protentivo, nel vortice del presente. Ecco che il silenzio successivo divora il futuro, si caratterizza per esercitare una forte tensione in avanti: quel “grumo” (lumpy) di silenzio vive in una temporalità tutt’altro che statica.
Nel caso del suono “percussione-risonanza” il silenzio che segue alla fine del suono vive in una temporalità completamente diversa. Il suono attacca e progressivamente diminuisce (fino a scomparire). Poco dopo l’inizio, l’ascoltatore è in grado di prevedere il decorso sonoro, in altre parole, di immaginare il profilo sonoro e attribuirgli un decorso temporale. L’attacco del suono imprime un certo andamento al tempo; con il diminuire dell’intensità sonora il tempo rallenta; nel momento in cui il suono scompare, il tempo finisce la sua corsa. Il suono consegna al silenzio la fine del tempo. Il silenzio è adesso un grumo che assorbe ogni contenuto di coscienza nella propria staticità temporale. Il silenzio è statico, guarda indietro, verso la struttura ritentiva del presente.
Come si vede già da questi due esempi, il grumo del silenzio può assumere varie forme e temporalità, a conferma di ciò che tu dicevi, e del fatto che l’ascolto del silenzio determina il modo di percepire la musica e il tempo in cui vive.
—-
Afterword: In Playing with Silence, Mirio presents silence as a multifaceted, multivalent possibility. Not (necessarily) as a kind of thing, roughly speaking—an event, for example, or an intentional object—or a quality of a thing, but often as a figurative way of describing how one can related to oneself, one’s environment or, in a performance situation, the unfolding performance and one’s fellow performers. For our conversation, though, we tended to focus on silence as a secondary quality or phenomenon. Which is to say as an aspect of the world as it appears to us or—and this is nearly the same thing—as we take it.
Both ways of looking at silence seem to be complementary moments within a larger structure. In order for silence to be present to us we must be present to it in a certain state of attentiveness—a state that, in addition, covers a spectrum of receptivity and correlatively, a spectrum of what is received. Silence turns out to be a complex thing–a matter of degrees that takes on different qualities in different contexts. And we can imagine the “silence” in “playing with silence” as both the object of play and the quality of the playing.