Quando Luciano Berio affermava che la musica avesse più funzioni non si sbagliava affatto. Si potrebbe aggiungere a quanto intuito dal compositore che la musica in tal modo presenta dei paradossi, degli estremi di godimento: da una parte chi la usa come merce, dall’altra chi la santifica e ne scopre qualità cercando informazioni nel dettaglio sonoro. Un’altra apparente contraddizione sta nel porre in evidenza le caratteristiche essenziali della composizione e dell’improvvisazione libera, un divisorio che non ha motivo per essere applicato oggi: aldilà della crescente omogeneizzazione delle due pratiche sono stati soprattutto gli improvvisatori a scavare nelle concezioni della ‘libertà espressiva’ e delle ‘aperture di campo’, in molti casi sotto l’influsso dell’esperienza e di studi specifici.
Simon Rose è un sassofonista che appartiene proprio a questo ‘scavo’ di ricerca: navigando in quella trascurata parte della musica che prevede un consuntivo di quanto si pone in opera, Rose ha riflettuto sulle costruzioni e gli indirizzi dell’improvvisazione libera, sulle probabili somiglianze con l’analisi filosofica, nonché su una fenomenologia indotta dai processi improvvisativi che potesse avere una coerenza nell’ambito della ricerca artistica; il nuovo testo Relational Improvisation – Music, Dance and Contemporary Art, appena pubblicato dalla Routledge, che arriva dopo un paio