Un bel pò di anni fa suonare veloce uno strumento era considerata una grande virtù e se pensiamo ai trombettisti free jazz, questa virtù calza alla perfezione. Della tromba di Herb Robertson se ne cominciò a parlare alla pubblicazione di Mutant Variations di Tim Berne, album imperdibile del nuovo corso newyorchese degli anni ottanta che spingeva sull’agilità, lo scatto e la frammentazione non completa, un disco in cui Robertson faceva un figurone, ponendo così le basi iniziali di un percorso virtuoso di musicista (subito dopo arriveranno le conferme nelle formazioni free di Mark Helias e Dominic Duval). Robertson si era ritagliato uno stile memore dell’influenza del primo Leo Smith, ma con particolari accenti creati intorno alla tromba e ai suoi affini (cornetta, flicorno) e meno liricità: c’è tanto jazz nella musica di Robertson ma la voglia è quella di sconfinare, abbandonare spesso le strutture idiomatiche e capitalizzare l’attimo della performance improvvisativa; per far questo, Robertson sentiva il bisogno di circondarsi di ulteriori oggetti durante le esibizioni, egli faceva un largo uso di sordine di vario tipo (anche un cappello o una bombetta potevano andar bene), di fischietti, bocchini di altri strumenti interscambiabili, giocattoli, sonagli, persino di un megafono portato alla bocca assieme allo strumento e usato alla maniera di un incomprensibile proclama poetico o politico.
Robertson viaggiava molto, era certamente un nomade dell’improvvisazione e i suoi colleghi lo hanno sempre considerato un gigante del suo strumento. Prescindendo però dalla lunga attività di session man che qui non posso riepilogare, Robertson pose in essere progetti personali con diverse formazioni, tra le quali nutro un ricordo molto positivo per The Double Infinitives (Tammen, Swell, Lough, Sayek) che incise Music For Long Attention Spans, uno splendido e rappresentativo lavoro per Leo R. del 2001 che richiama in alcuni punti la teatralità di Honsinger e poi per l’Herb’s 5’tet e 7’tet, formazioni italiane di spicco (Cavallaro, Tononi, Tacchini, Succi, Geremia, Mangialajo, Caruso) con i quali Robertson incise The legend of the missing link, un album validissimo che resta ancora oggi una delle sue migliori prove discografiche di sempre. Nei duetti, invece, Robertson ha fatto cose eccelse con il chitarrista Mark Solborg, tre albums particolarmente validi pubblicati alla ILK R. e strettamente legati ad una dinamica particolare delle forme improvvisative, più tranquille e tese alla perfetta corrispondenza tra suoni e pensieri latenti (in uno dei tre albums figura anche Evan Parker). Negli ultimi tempi Robertson era invece sempre più in contatto con Phil Haynes e Ken Filiano (I cosiddetti tre ‘sciamani’), orientato ad una maggiore libertà di azione, non solo tromba o derivazioni particolari, ma anche e soprattutto un veloce diletto sulle tastiere.
Spontaneità, tecniche estese, imprevedibilità, jazz e astrazioni.
RIP Herb Robertson