Qualche riflessione sulle prime novità discografiche 2017 della Leo Records.
Partiamo dal nuovo cd dell’Ensemble 5, il gruppo del batterista Heinz Geisser: si tratta di un Live in cui la novità sta nella partecipazione al sax e poetry di Elliott Levin, un bravissimo artista di Filadelfia, sempre attento a riempire la sua musica con un appropriato attivismo politico e sociale. Un musicista validissimo, con una propria espressione e un’esperienza maturata aderendo al fermento artistico degli anni settanta. Pur avendo inciso poco come solista, Levin ha propinato un canovaccio parecchio speciale dell’improvvisazione, attivando soprattutto il collegamento tra musica e recitazione; il ricordo va alla jazz poetry di John Sinclair, una combinazione micidiale rimasta parecchio trascurata nella dimensione jazzistica ed improvvisativa. Il rinnovo della personalità di Levin è quasi un atto di fede da parte di Geisser, che vuole prescindere da intenti politici e porre al centro il succo dell’arte di Levin, in una condensazione con lo stile del suo quartetto: oltre a poter puntare sulla propria idea di jazz, Geisser sa di poter contare anche su quella di improvvisatori levigati e impostati secondo uno specifico concetto di libera improvvisazione (Blumer, Morganthaler e Staub lavorano nella stessa direzione), perciò in Live-featuring ElliottLevin, sembra recuperata d’un colpo quell’arte di saper canalizzare minuziosamente gli interventi, lavorare d’assieme e creare una sana e affascinante movimentazione, rafforzata dalle estemporanee prese di posizione della poesia. La metodologia improvvisativa tende ad una gioviale conversazione nella Moods and WIMS – of Jazz-mined hymns, dove l’introduzione poetica è un veicolo antropologico per lanciare una lunga connessione tra i musicisti, che pian piano si infiamma, crea una memoria virtuale dell’ascolto e gratta nei quartieri di un free-jazz compiacente ai modelli statunitensi del passato; mentre in The hearts of the Eco-Euro-Pean-Omic Soul una superba elevazione di Staub al piano, prefigurante scenari di una movimentazione cangiante, dà spazio ad una probabile protesta anti-capitalistica sull’Europa, con tante condensazioni strumentali (sentire lo splendido climax intorno al decimo minuto). So che Heinz gradisce anche una valutazione sintetica: ed allora non c’è dubbio che Live-featuring Elliott Levin è un’appendice perfettamente centrata della musica dell’Ensemble 5, dove bravura ed impeto dei partecipanti confezionano una taglia extra-large dell’improvvisazione.
Quando Schoenberg intervenne con la sua tecnica dodecafonica, il periodo della novità della scoperta finì con quello del porsi gli interrogativi. Era stata creata una nuova teoria, nuove possibilità di intervento sul pentagramma, ma tuttavia restava un’ombra sulla bellezza di un’armonia cromatica che sembrava aver perso i suoi punti di riferimento. In Olanda, il compositore Peter Schat tentò di risolvere il problema con una suggestiva speculazione visuale chiamata Tone Clock, in cui tutti gli accordi possibili a tre note venivano sistemate a mò di triangolazione, su un ipotetico quadrante delle ore di un orologio: quattro coppie di accordi per ogni ora (per ogni nota). Ma a prescindere dalla colorata configurazione grafica delle triadi di ogni quadrante, la teoria era importante per lo steering, cioè l’indicazione di una direzionalità tra le ore, in breve un loro collegamento.
Sull’invettiva seguita da Schat si basa anche Pleonid, il lavoro svolto da Stuart Popejoy, bassista di Brooklyn, che si inquadra nella composizione algoritmica con spazi dedicati all’improvvisazione. Si tratta di una partitura ottenuta con un software personalmente sviluppato tra il 2007 e il 2012, che è frutto di un intricato processo di sequenze di note, di un loro accorpamento in accordi e di uno “steering”. Popejoy parla di strand of a brain per indicare la fitta trama che si viene a creare, e forte corre il pensiero nel delineare una rilevante strutturazione degli elementi della partitura (ritmica, melodica, contrappuntale). Pleonid viene disposta per un quintetto che segue le indicazioni di una partitura selezionata con procedure stocastiche, aggregato composto da Avram Fefer al sax alto, Sarah Bernstein al violino, Steve Swell al trombone e Kenny Wolleson a vibrafono e batteria (più naturalmente Popejoy alla chitarra basso). Il risultato è tutt’altro che distorsivo o inumano: rimembrando la funzione sperimentale che percorreva il Leo Lab, Pleonid sembra guadagnare moltissimo in armonia aggiuntiva e lascia un ottimo spazio di intervento ai musicisti; si viene proiettati in plurime configurazioni di suono che non conoscono confini e limiti di tollerabilità. Popejoy tende a sfruttare la propensione matematica per un ambizioso prodotto che si mette di fianco al normale sentimento di un musicista, per dargli degli stimoli ulteriori. E’ un percorso che sembra finanziare le orchestre organiche di Adam Rudolph, dove lo scopo è mantenere in equilibrio un mondo onirico e misterioso senza coordinate temporali. Certamente in Pleonid i flussi di bilanciamento funzionano, ma resta difficile trovare i punti di riferimento.
La figura del trombettista Loz Speyer viene soprattutto legata all’esperienza della riorganizzazione in chiave jazzistica di alcune forme musicali cubane. Un appassionato del world jazz inglese come John Fordham ritiene che Speyer sia uno dei segreti meglio mantenuti della musica jazz britannica e non c’è dubbio che la sua verve musicale riveste ancora un nostalgico senso di freschezza per come viene adoperata. Tra i suoi progetti iterativi, quello dell’Inner Space, si pone come un lavoro più tradizionalmente legato al jazz tout court, senza fronzoli etnici, tendente ad un bebop spinto fino ai limiti del free. Una delle prerogative di Speyer è quella di insegnare ai giovani musicisti la bellezza della sua frenesia musicale, soprattutto alla luce di una professionalità le cui regole sono ben note e magari esibendo tale professionalità con maestri della sua generazione: è quello che succede per il progetto Inner Space, dove da una parte condivide l’iniziativa con giovani musicisti (un’affiatata sezione ritmica composta da Brice e Willcox più un sax soprano/tenore, Rachel Musson), dall’altra invita un gran talento del jazz inglese (Chris Biscoe a sax e clarinetto), rivangando percorsi magnifici legati al primo jazz non radicale inglese dei sessanta (Biscoe suonava nel trio di Mike Westbrook). E’ su queste basi, quindi, che Life on the edge non può sorprendere, ma per coloro che non si rassegnano a veder l’acqua passare sopra i ponti, può dare enormi soddisfazioni.
Ci becchiamo un duo tra Frank Gratkowski e Simon Nabatov in Mirthful myths. Pur avendo suonato assieme e provocato molte belle stagioni della musica improvvisata, un cd tra i due non era mai stato pubblicato. Registrato al solito Loft di Colonia nel maggio del 2015, Mirthful myths indugia su una tipologia umorale unificante: senza nessuna limitazione di sorta nella tecnica, lo scopo è dialogare ognuno con i propri mezzi, tenendo conto del momento. Qui i miti della prosperità e dei piaceri vanno inquadrati nell’ottica di un allargamento ricognitivo delle possibilità offerte dagli strumenti, come se le figure mitologiche potessero parlare attraverso le loro vibrazioni: una divinità, certamente sarà in grado di impegnare totalmente gli strumenti e rivendicare una propria denuncia espressiva. Ecco quindi che dalle parti di Mirthful myths non si sviluppa allegria, ma solo incantesimi di una ricchezza comunicativa tutta da decifrare. I richiami alla mitologia di Eirene, Pan o Notus (che guidano anche i brani migliori) non vogliono stabilire una relazione diretta con la riconosciuta protezione della pace, degli agenti naturali o degli istinti sessuali prodotta dalla storia, quanto verificare un loro fantastico intervento svincolato dal peso del mito. Processi creativi vitali, proponibili in qualsiasi spaccato temporale.
Ritorna dal 29 novembre il festival di Musica in Prossimità a Pinerolo. Come sempre, dietro la rassegna c'è l'associazione Metamorfosi Notturne con la mano...