La vena camaleontica di registrare grandi quantità di musica è un progetto con in quale i musicisti dell’improvvisazione inondano gli ascoltatori per mettere a nudo ogni passaggio temporale del loro sviluppo: nella maggior parte dei casi si tratta anche di registrazioni inutili, che prevedono ricomposizioni tecniche che magari non sono nemmeno percepibili all’orecchio dell’ascoltatore, ma sono quantomeno indicative di un percorso interpretativo, che vuole evidenziare un principio di cambiamento o una nuova idea. Quanto sta succedendo al sassofonista Ivo Perelman va inquadrato in questa direzione: con molta modestia ritengo di essere stato uno dei pochi che ha scandagliato l’intera discografia del brasiliano illustrando le variabili rotte seguite per accogliere nuove evoluzioni e con il conforto del musicista stesso, si è fatto di tutto per evidenziare le frontiere perseguite nella tecnica e nella conseguente ricerca sui suoni. I sei volumi di “The art of the improv trio” incorporano come elemento di novità quello della concentrazione sui toni altissimi del sax tenore, effettuati con l’adeguamento a criteri di interposizione timbrica dell’improvvisazione: dice Perelman a proposito che “….it’s not only the change of personnel that makes each result different, but also my personal trajectory in learning to play the saxophone….”; ne scaturisce quindi un metodo che può essere applicato sfruttando un’elaborazione umorale dei suoni che è conseguenza delle scintille che si producono in quell’area alta del pentagramma e che possono confrontarsi con pianoforti, chitarre, violini o contrabbassi.
I volumi di Perelman mostrano un’estensione avanzata di una terminologia che si dovrebbe confrontare con la bellezza costitutiva degli esperimenti in trio di Bill Evans, così come costituisce avanguardia rispetto a quell’operazione che ideò Brad Mehldau molti anni fa per il pianoforte: qui il riferimento passa al sax e se è vero che lo scopo comune da raggiungere è quello di nuove sonorità e soprattutto di una “chemistry” delle aggregazioni in trio, è anche vero che Ivo mette in campo una superiorità tecnica (quanto meno per il suo strumento) che si basa su ricostruzioni di imboccature, rimodulazioni del respiro e una segmentazione dei suoni dei registri alti che nelle parole generose di Neil Tesser profila un arsenale di contribuzioni tecniche al sax tenore tra le più fruttuose dopo Roscoe Mitchell.
Per mostrare i suoi metodi Perelman ha i suoi musicisti di fiducia: con la costante ritmica sempre presente nelle tessiture della batteria, Perelman chiama in causa il pianoforte di Karl Berger (nel volume 1 assieme a Gerald Cleaver) e di Matthew Shipp (nel volume 3 sempre con Cleaver); oppure si contrappone al violino di Mat Maneri (nel volume 2 con Whit Dickey alla batteria), con la chitarra di Joe Morris (nel volume 5 con Cleaver alla batteria), con il contrabbasso di William Parker (nel volume 4 – Cleaver alla batteria) e dello stesso Morris (nel vol. 6 – sempre Cleaver alla batteria). Una rotta per la comprensione che potrei fornirvi è quella inviata dalle copertine, intinte dei dipinti di Ivo: c’è una sostanziale modificazione rispetto a quelle che il sassofonista forniva qualche anno fa nel documentare visivamente l’espressionismo della sua musica e che si riflette nel fatto che c’è meno colore e una raffigurazione più lineare degli impulsi creativi: le note alte su cui si discute sono l’equivalente delle forme più sottili che formano il disegno; è come se i materiali fossero diventati scarsi e l’uso di essi si concentra in formazioni astratte ed imprevedibili, che impongono al dipinto di visualizzare queste enigmatiche propensioni della creatività.
Perciò è un contrappunto del tutto speciale quello che si crea tra Berger o Shipp al piano rispetto a quello di Maneri o Morris ai rispettivi strumenti, poiché Perelman si rende conto di quanta vicinanza il suo sax possa esprimere con violini o strumenti a corda: sulla base di questa considerazione potete scegliere lo sviluppo più confacente ai vostri gusti perché quello che scaturisce nei vol. 1 e 3 (con il pianoforte in contrasto) è un arrotondamento umorale dell’improvvisazione che entra in conflitto con la spigolosità degli altri (specie il vol 2 e il vol 5) che sono invece frutto di un testa a testa svolto incredibilmente con pari veste dal sassofonista brasiliano. In quest’ottica viene spostata su altro binario anche la valenza spirituale che costeggia le prestazioni di Parker. Mentre sul drumming le differenze non sono notevoli perché Dickey pur essendo più pesante nei colpi di Cleaver, mostra comunque una trama poliritmica di egual spessore, sul resto si espande la forza e una urgente velleità di comunicazione espressiva che sembra mai ridursi nel sassofonista di origine brasiliana. Sono modalità e metodi che solo i grandi sassofonisti possono vantare.