Le deformazioni dell’improvvisazione newyorchese e la Systematic Distortion Orchestra di Frantz Loriot

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foto tratta da outnowrecordings.bandcamp.com
Nell’offrire spazio a qualsiasi tendenza, l’attuale scena improvvisativa della Grande Mela fornisce anche delle direttive di sorta: di fronte ad un assottigliamento qualitativo dei musicisti più in linea con la tradizione jazzistica, vivace si presenta l’orientamento di coloro che hanno sposato un concetto più ampio della loro espressione artistica; inoltre esiste una differenziazione per ciascuno di loro sia in rapporto alla generazione vissuta sia in rapporto al tipo di elementi utilizzati, anche se tutti sembrano far uso, in dosi diverse, delle scoperte della musica classica e contemporanea (salvo poi stabilire a parte le varie paternità con essa). Gli ultimi dieci anni circa ci impongono un quadro piuttosto variegato della situazione musicale improvvisativa che si addensa a New York, mostrandoci come personaggi del calibro di Roscoe Mitchell, Henry Threadgill o Wadada Leo Smith stiano transitando ancora su convergenze compositive, privilegiando esteticamente la scorrevolezza delle loro proposte, mentre mostri sacri come Anthony Braxton o Steve Coleman stanno continuando a lavorare su idiomi matematici o su suscettibili configurazioni spazio-temporali della musica (sintomatiche sono le rappresentazioni in movimento nei luoghi d’arte di Braxton così come particolarmente fitto si è fatto il lavoro di intercettazione delle relazioni funzionali-geografiche di Coleman che ha dimenticato completamente il suo funk-jazz). La nuova generazione di musicisti newyorchesi, in possesso delle carte in regola per il superamento di qualsiasi concetto tradizionale di jazz, si muove efficacemente nella propria progettualità con molte alternative: se alla base di tutto si evidenzia un chiaro accrescimento della tensione profusa nella musica, non si può negare come ci siano differenze non leggere tra ognuno di loro: se ascoltate un Jeremiah Cymerman avrete paradigmi da scovare ben differenti di quelli di un Matt Mitchell (un fine senso del torbido contro l’intricata e sfibrante aggressività del secondo), così come una differenza la si trova tra le strutture complesse ed “armoniche” di Steve Lehman e le conductions libere e condite di colto esistenzialismo di Tyshawn Sorey. Inoltre c’è un interesse sempre più ampio a sperimentare in gruppo sotto direzione artistica: è un’esigenza che si basa su una sorta di saccente liofilizzato creativo, che fa un giro forzato da Butch Morris e poi si distribuisce in formati orchestrali che rivelano la volontà di arrivare ad un concetto cosmopolita dell’improvvisazione, in cui ognuno si introduce con le sue caratteristiche di lingua musicale. Quindi un unicum, che non può prescindere dal lato geografico e di produzione del luogo in cui l’improvvisazione viene svolta, prendendo dentro di sé legami comportamentali che sono patrimonio dell’esperienza vissuta. Non a caso si formano orchestre a New York o a Berlino che sembrano appartenere allo stesso ordine di preferenze, quasi fossero delle permutazioni: in un mondo sempre più internazionalmente allacciato, gli umori musicali (variamente diluiti) possono contribuire a formare un “prodotto” speciale (direi lastre musicali in fluttuazione dinamica), comunque autentico, frutto di un background che spesso non è strettamente musicale (si pensi alle bellissime intuizioni recenti di Sorey, sfruttate anche con la Banff Orchestra/NYC Improvisers, fino a 25 musicisti che girano periodicamente i locali di New York, coordinati dal batterista americano).
Frantz Loriot ha formato la Systematic Distortion Orchestra con un scopo simile: pur essendo europeo, Loriot è uno dei tanti musicisti che mantiene un legame stretto con la realtà newyorchese e con la partecipazione ad organici della downtown; in The assembly Loriot ricostruisce una personale orchestra, con l’intervento di alcuni dei più promettenti giovani improvvisatori della città americana; con lui sono Ben Gerstein e Sam Kulik ai tromboni, Brad Henkel e Joe Moffett alle trombe, Nathaniel Morgan all’alto, Sean Ali e Pascal Niggenkemper ai contrabbassi, Carlo Costa, Devin Gray e Flin Van Hemmen alle percussioni.
The assembly con molta modestia porta alla ribalta la bellezza del suono di qualunque qualità esso sia: melodico, distorto, graffiante, itinerante, etc. Echo comincia con un corale d’urto di tutti i partecipanti su un tema trasfigurato dagli ottoni che sembra provenire da un funerale di New Orleans: il caos, di quelli conosciuti dalla libera improvvisazione, subisce però un lento decadimento nella seconda parte quando la viola di Frantz percorre i segni dello stridore e intima all’orchestra di smorzare i toni. Pizzicati e strutture a strappi permeano la successiva The assembly, che vive di una colorazione quasi “impossibile” da definire, tant’è nevrotica ed immersa nelle soluzioni liminali dettate dalle tecniche espressive. Il reading di Sean Ali accompagna la “..Maybe…still“, che riaccende ricordi della beat generation e delle Shadows di Cassavetes, mentre un eruttante impianto percussivo accompagna Le Relais, la quale pian piano ridisegna il caos congiunturale e assegna definitivamente un famelico aspetto musicale tutto riassunto in questa sessione.
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Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.