Notes on Field Recording

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(My recent work on Doubting All Things Aligned, a collaboration with Chris Lynn that combines field recordings with composed and improvised music, stimulated these thoughts on field recordings—the part of the collaboration I was not responsible for.)

Field recording considered as a work captures the audio image of a given location in space and in time. As a work—a created object—the field recording makes something intentional of the unintended. An intentional audio object emergent from the more or less accidental audio qualities of a given place and time.
Location exists not as, say an abstract set of coordinates, but as a temporally bound chain of contingencies. Thus listening to the sounds these contingencies produce is a discipline linked to a particularity of place and time.  Listening always transpires in time, in this particular time and no other.  Recording allows us to revisit that time but does not recreate it in all the facts of its particularity.
Paradoxically, the field recording is a quasi-acousmatic work: Filtered through its sounds, the concrete, specific location is stripped of the physical, three-dimensional context in which its concrete specificity inheres; it is a “this-place” that, boiled down to its sounds, becomes a no-place or an anyplace. In a sense, an atopia, a place of dis-placement.
Thus the field recording is as much about the elusiveness of location as about the sounds that arise there. In a sense the latter are accidental features, epiphenomena laid over the essential fact of a given physical place. As sounds alone, though, they could be from anywhere.
Sounds of the landscape or of machinery, the background hum of conversations in the aggregate: A continuo from which individual voices and identifiable sounds occasionally make themselves known. We can identify the sounds and recognize their sources in a general sense without necessarily being able to identify the specific site from which they originated.
Field recording as acousmatic experience: Listen knowing nothing about the location from which the recording was taken. Knowing too much about the circumstances of recording allows the intellect to fill in the details, to try to associate each sound with its source in the landscape or in objects present at the scene. This takes attention away from the sounds themselves, from their timbres and relationships both compositionally and as contrasting or complementary elements.
Field recordings remind us that our being in the world is in a sense the world itself—to the extent that our being in the world is a constitutive interpretation of the world. We create it out of the raw material of perceptual disturbances. By the same token, field recordings create a sound world out of selection and presentation, putting a frame around an otherwise amorphous wash of stimuli. Or, impose form onto the apeiron, the unbounded.
The unprocessed field recording is the image of observation and reflection by virtue of its having been composed, even if only in the minimal sense of having been selected, excerpted from the real time flow of living.
By virtue of the act of selection, the unprocessed field recording is a composition. This has ontological implications in that it takes sounds that in nature or everyday life are one kind of thing—accidental features of the environment–and converts them into a different kind of thing altogether: Artworks of a particular type, whose raw material is sound.
By what principle? Simply by this: An artwork is an object composed of a medium conveying meaning put there by the artist. Accidental sounds—the aural contingencies of a time and a place–become media conveying meaning by virtue of their having been selected, framed and presented as such. Field recording, in other words, makes the accidental intentional by stamping it with meaning and giving it over to a particular kind of listening.
This isn’t to say that the aural environment is somehow meaningless until it’s reframed through field (or, potentially, other) recording. Contingent sounds do have meaning for us—meaning we derive from them, as we would from a text or other signifying object we interpret. They are elements within the network of signs that is our environment. When reframed as music through field recording or having been set within music, we impart meaning to them. “From;” “to”: two different prepositions between which resides a world of difference.
What is the basic meaning of the reframed accidental sound? “This is music.” Or just “listen.” Listen to these accidental sounds through the framework of music, hear the musical qualities they embody if only we let them.
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Note sulla Registrazione di Campo

 

(Il mio recente lavoro su Doubting All Things Aligned, una collaborazione con Chris Lynn che unisce registrazioni di campo con musica composta ed improvvisata, ha stimolato questi pensieri sulle registrazioni di campo–la parte della collaborazione di cui non ero responsabile).
La registrazione di campo è stata definita come un’opera che cattura l’immagine audio di una data posizione nello spazio e nel tempo. Come un lavoro -un oggetto creato- in cui la registrazione di campo rende intenzionalità a qualcosa che non lo è. Un oggetto audio intenzionale che emerge dalle qualità audio più o meno casuali di un dato luogo e tempo.
La localizzazione esiste non come risultato di una combinazione astratta di coordinate, ma come una catena di eventi legati temporalmente. Così l’ascolto dei suoni che queste contingenze producono, è una disciplina legata ad una particolarità del luogo e di tempo. L’ascolto si evidenzia nel tempo, in quel particolare momento e nessun altro. La registrazione ci permette di rivisitare quel momento, senza poter ricreare tutti gli aspetti delle sue specificità.
Paradossalmente, la registrazione di campo è un lavoro quasi-acusmatico: filtrato attraverso i suoi suoni, il luogo concreto, specifico, è spogliato del fisico contesto tridimensionale in cui versa; si tratta di un “luogo-certo” che, ridimensionato al suono registrato, diventa un non-luogo o un qualsiasi luogo. In un certo senso, un’atopia.
Così la registrazione di campo è eloquente sia per quanto riguarda l’inafferrabilità del luogo utilizzato, sia per i suoni che vengono presentati. In un certo senso questi ultimi sono episodi casuali, epifenomeni che sovraintendono gli avvenimenti essenziali di un determinato luogo fisico. Come suoni singolarmente presi, però, potrebbero essere ovunque.
Suoni del paesaggio o di macchine, il ronzio di fondo di conversazioni che si perdono in un aggregato: un continuo da cui le singole voci e i suoni identificabili occasionalmente si fanno conoscere. Possiamo identificare i suoni e riconoscere le loro fonti in senso generale, senza necessariamente essere in grado di identificare il sito specifico da cui hanno avuto origine.
Registrazione di campo come esperienza acusmatica: tu ascolti non conoscendo nulla della posizione da cui è stata presa la registrazione. La conoscenza approfondita delle circostanze della registrazione consente all’intelletto di riempire i dettagli, per cercare di associare ogni suono con la sua sorgente nel paesaggio o in oggetti presenti sulla scena. Questo però ci fa perdere l’attenzione sugli stessi suoni, ai loro timbri e alle relazioni sia compositive che quelle esistenti tra elementi contrastanti o complementari.
Le registrazioni di campo ci ricordano che il nostro essere nel mondo è in un certo senso il mondo stesso, nella misura in cui il nostro essere nel mondo è un’interpretazione costitutiva di esso. Noi lo creiamo fuori dal materiale grezzo dei disturbi percettivi. Per lo stesso motivo, le registrazioni di campo creano un mondo sonoro aldilà della selezione e presentazione, mettendo una cornice attorno ad una centrifuga di stimoli altrimenti amorfi. Oppure, impongono forma sull’apeiron, l’infinito.
La registrazione di campo non processata è l’immagine dell’osservazione e riflessione nella virtù del suo essere stata composta, sebbene nel senso minimale dell’essere stata selezionata, estratta da un flusso di vita in tempo reale.
In virtù dell’atto di selezione, la registrazione di campo non processata è una composizione. Ciò ha implicazioni ontologiche dal momento che essa prende suoni che in natura o nella vita quotidiana sono un genere di cose- eventi casuali dell’ambiente – convertendoli per intero in un diverso tipo di cose. Lavori d’arte di un genere particolare, la cui materia prima è il suono.
Con quale principio? Semplicemente questo: un opera d’arte è un oggetto composto, un mezzo che convoglia significati messi lì dall’artista. Suoni accidentali -le contingenze aurali di un tempo e un luogo–diventano mezzi di trasporto dei significati in virtù del loro essere stati selezionati, incorniciati e presentati come tali. La registrazione di campo, in altre parole, rende intenzionale la casualità, imprimendo un significato che si adatta ad un particolare tipo di ascolto.
Questo non vuol dire che l’ambiente sonoro è in qualche modo privo di significato finché non è riformulato attraverso la registrazione di campo. Suoni contingenti hanno significato per noi, il che significa che noi siamo in debito con loro, come faremmo da un testo o un altro significativo oggetto che interpretiamo. Sono elementi all’interno della rete di segni che è il nostro ambiente. Quando riformulata come musica ottenuta attraverso la registrazione di campo o comunque entro i confini della musica, impartiamo a quei elementi un significato. “Da;” “a”: due differenti preposizioni tra cui risiede un mondo di differenza.
Qual è il significato di base del suono casualmente riformulato? “Questa è musica.” O semplicemente “ascolto”. Ascolta questi suoni accidentali in un contesto musicale, ascolta le qualità musicali che incarnano quando li lasciamo scorrere.