Sebbene arrivato con notevole ritardo, la segnalazione che di consueto faccio ogni anno per la netlabel di Chicago, la Panyrosas D. di Keith Helt, per il 2015 vede emergere soprattutto un paio di artisti europei. Si tratta di due musicisti con caratteristiche totalmente differenti.
Il primo è il bassista francese André Darius con una versione ridotta (3 brani su 6) di The Bridge, una collaborazione con il sassofonista Hervé Perez; Darius è una di quelle perle rare dell’improvvisazione riguardo a quella zona d’ombra che investe tutte le tipologie di basso oggi esistenti: il francese si cimenta non solo con il tradizionale basso acustico, ma anche con fretless bass, bass-guitar ed Eub (Electric Upright Bass) e con qualche preparazione ottenuta inserendo oggetti negli strumenti; mi sento di affermare che la sua ascesa come musicista è in constante arricchimento e va seguita. Prima di arrivare alle collaborazioni con Perez, Darius va ascoltato nelle sincopi di ricerca passanti da registrazioni effettuate in altre netlabels, verificando come lo stesso abbia avuto già modo di impressionare con il solo di Orage (in cui l’incubazione del suono sordo e potente del basso preparato si confronta con la dinamica equivalente dei tuoni opportunamente riallineati in campo di registrazione) e le collaborazioni con Pimplof, Christophe Meulien e Weronika Partyka (in cui si è in grado di effettuare delle valutazioni sulla bontà dell’impianto improvvisativo e sulla capacità di connotare delle immagini rappresentative).
The Bridge, che colpisce sin dal collage della copertina, favorisce quelle associazioni benefiche di pensiero che sono alla base di una piena positività sul prodotto: l’attività di Darius si trasferisce sul basso elettrico e sull’Eub, scava nelle pieghe ruvide di una intraprendente cameralità oppure si inabissa in un sostegno improvvisativo che riesce ad essere ritmicità allo stesso tempo; qui strofinamento di corde e sound processing sono elementi ben curati: Perez, d’altronde, tra ritorni di sassofono jazz che navigano tra Dexter Gordon e John Zorn, coagula qualità noir da parte sua; gli abbinamenti sono completati con l’inserimento di fluide campionature ed un’impietosa batteria in costante controtempo (è una piacevole sorpresa l’invito a Peter Fairclough, batterista dei dintorni di Keith Tippett e Paul Dunmall). E’ una visione varia ed abnorme quella di Darius che cerca di allungare in campi poco esplorati le ombre di Pastorius e di tanti bassisti dell’improvvisazione jazz. Naturalmente l’invito è ad estendere l’ascolto all’intero lavoro che potete trovare anche su bandcamp.
La seconda segnalazione è in favore dell’estetica della musicista/compositrice austriaca Christine Schorkhuber, che nella pubblicazione di Panyrosas si presenta con il suo progetto solista denominato Canned Fit. Christine si è messa in evidenza grazie ad un programma di musica d’arte diretto da Peter Ablinger nel 2014 a Darmstadt, in cui ha rivestito il ruolo di regista per la documentazione e la parte video; l’installazione e le realizzazioni di elettronica sono il suo modello preferito, ma è soprattutto il circuit bending che a lei interessa, sebbene si debba parlare di una particolare evoluzione di esso; in Cucharas de Arena la Schorkhuber esprime tutto il suo potenziale: il suo show si avvale di un apparato input-output dei suoni, direttamente collegato tramite microfonazione a degli oggetti di uso comune: contenitori di latta, scatole, legno ed altri oggetti sono vivisezionati nel loro apparato acustico. E’ un processo di estrazioni di suoni a carattere sperimentale (in cui vengono modulati anche rumori atmosferici) che si amalgama con frequenti incursioni di canto incorporeo, delle lievi litanie, giri di pop che potrebbero stare senza problemi nelle pause compositive di artisti come Vienna Teng o Tom Verlaine, corredato di sincopi ritmiche che richiamano in maniera astratta la moderna rappresentazione dell’Intelligence dance music. A ben vedere Canned Fit sembra un modello complicato, ma all’ascolto si rivela tutt’altro, dando l’impressione di una grande passione dell’artista per quel mondo sonoro nascosto e non sufficientemente udibile delle pietre, dei cocci di ceramica o dei metalli: un nuovo modello di avant pop? Un design interdisciplinare di composizione? O la sperimentazione sonora dei prossimi cento anni da effettuare sul feedback sonoro e sui field recordings? Sta di fatto che la godibilità che invade Cucharas de Arena depone a favore di un accattivante lavoro di conversione della musica, che non lascia niente al caso e se accediamo al lato popolare, lancia uno splendido avvertimento, un piano di lavoro molto più maturo e determinato ad evitare ciò di cui oggi si raccoglie le briciole, ossia una dilagante negatività espressa in suoni depressi e senza speranza.