Non penso siano pochi coloro che si sono posti del problema della melodia nella libera improvvisazione; è un tema sul quale Evan Parker e Derek Bailey ci hanno costruito un trattato in senso contrario, ma è anche sensato pensare che molti improvvisatori non abbiano nemmeno affrontato la questione della melodia a viso aperto, ritenendola giustamente un corollario dell’espressione personale. E’ così che musicisti come Frank Gratkowski, Achim Kaufmann e Wilbert de Joode interpretano probabilmente il loro modo di suonare, che non è alla ricerca di una scoperta sensazionale ma si fonda sul rispetto dell’autentica vena dei suonatori. Naturalmente per produrre un determinato risultato è necessario comunque ricorrere alle tecniche estensive, le quali automaticamente dirottano in sensazioni differenti da quelle sognanti e classiche determinate della melodia, ma nel complesso non è detto che le nostre orecchie non percepiscano un nuova ed ulteriore forma di melodia anche nell’ambito di un’improvvisazione dal tenore cacofonico. Continuando in una collaborazione che si rivela sempre edificante, i tre musicisti in trio pubblicano “Oblenghts”, un’opera di intricata creatività che si svolge nel tentativo pratico di suggerire, durante l’improvvisazione, alcune oggettivazioni specifiche: qui si assiste ad una moderata celebrazione dell’idea dello strofinamento o dell’allungamento così come lo percepiamo dalla realtà fisica e non c’è dubbio che nei 17 minuti di Trash kites, nella gran parte di Anything wooden or oblong o nella seconda sezione di No doubt the beginning, l’adattamento degli strumenti allo scopo è perfetto: Gratkowski si introduce nel trio elargendo sofferenze al sax alto/clarinetti di varia natura (da una generica stratificazione dei suoni che conduce allo strazio fino, in alcuni momenti, a raggiungere le potenzialità acustiche di un ferro a vapore, tramite la particolarità del soffio); de Joode percuote lo strumento e macina note perfettamente in linea con una dinamica di trascinamento; mentre Kaufmann si serve di aperture rapide o totalmente atonali (lavorate all’interno del piano) per accompagnare senza invadenza il flusso incontrollato del trio. Oblenghts non è solo questo, comunque, poiché gli “allungamenti” prevedono anche fasi intermedie alla ricerca di una coscienza sonora, delle configurazioni che hanno un’anima meno fisica e più vicina alle estetiche del suono care alle sue problematiche spazio-temporali, un lascito che accomunava Cecil Taylor quanto Morton Feldman ed è in questa dimensione che i tre artisti riescono a farci intravedere fantasmi di un’era idiomatica che continua a farsi presente nella sua interezza senza necessità di ulteriori spiegazioni di sorta (Of time in pieces).