Che la voglia di “aggregazione” musicale sia tornando prepotentemente alla ribalta è qualcosa sotto gli occhi di tutti; spesso però il problema è quello di avere le idee chiare sul da farsi e soprattutto veicolare nell’esperienza di gruppo l’equilibrio delle singole parti comunicanti. Negli ultimi tempi collettivi di assoluto valore come gli Angles 9 di Martin Kutchen dimostrano che può esistere ancora una dimensione aggregativa che sfrutta principi vecchi (l’empasse politico, la cavalcata free, la capacità popolare) per tirare fuori nuove configurazioni di suoni che non necessariamente attingono ad una logica strettamente jazzistica. Un’ulteriore dimostrazione di tenera bellezza, che coniuga cellule di composizione e spirito dell’improvvisazione, viene dal progetto del violista franco-giapponese Frantz Loriot, che ha organizzato assieme all’arrangiatore svizzero Manuel Perovic un gruppo di giovani promesse dell’improvvisazione tutto da inseguire: seguendo lo stesso principio usato per il Der Dritte Treffpunkt o la Systematic Distortion Orchestra (ossia invitare musicisti di estrazione geografica diversa a suonare insieme seguendo timide logiche di composizione), il Notebook Large Ensemble contiene oltre a Loriot e Perovic, una prevalenza di musicisti svizzeri tutti particolarmente interessanti: la sassofonista alto Sandra Weiss (di cui mi sono già occupato in una sua registrazione qualche mese fa), il trombonista Silvio Cadotsch, il trombettista Matthias Spillmann, Dave Gisler alla chitarra elettrica e Silvan Jeger al contrabbasso e alla voce; il completamento dell’aggregato arriva dal cello dell’italiana Deborah Walker, dal sax tenore del belga Joachim Badenhorst e la batteria del nipponico Yuko Oshima, anch’essi già suscettibili di un certo seguito. Nella registrazione di “Urban Furrow” (Clean Feed) si recupera il fraseggio e la particolare vitalità delle bands di Carla Bley periodo Escalator over the hill, cercando di cucire con una cerniera lampo l’indomito lavoro di innesto tra il jazz (naturalmente quello più evoluto), la musica pop e la concertistica classica o da wind bands: “To Hr” sembra a tal proposito un intervallo ben congegnato di una song di Sting, così come l’iniziale “West 4th” si riveste di molte qualità che non sono ascrivibili solo alle polveriere della libera improvvisazione. E’ la qualità dell’assieme che non tradisce, non c’è un minimo di retorica in questo gruppo di musicisti che sembrano non conoscersi ma che reagiscono tra di loro benissimo. La free improvisation rubata agli strumenti fa capolino sempre in un tessuto stratificato, che la vede interagire con una melodia vocale triste o con un patterns musicale che può provenire da varie fonti; da una giga fiatistica da banda paesana o sinfonica, da scarti ripudiati di jazz-rock canterburiano, da postumi irriconoscibili di fusione jazz, da intriganti evoluzioni agli archi che rammentano in chiave free la solitudine e l’ecatombe sensoriale delle recenti proposte classiche costruttivistiche russe. Tutto si concede, però, alla gradevolezza dell’ascolto.
Loriot, dal canto suo, è reduce anche di una registrazione in solo viola che nel panorama jazzistico è cosa rarissima: disponibile per l’intero ascolto nel sito dell’etichetta Neither/Nor Records, “Reflections on an introspective path” alza il velo su alcune tecniche estese, rinforzandole di probabili significati: lo scopo di Loriot è quello di raggiungere nei suoni risultati simili alle modificazioni ottenute con l’elettronica, lavorando però solo sullo strumento (vedi qui una dimostrazione degli assunti in una sua serie di improvvisazioni): “Confluences” regala attimi impensabili per uno strumento nato in una conclamata classicità, segnalando come lo stesso possa allontanarsi, attraverso un uso eclettico dell’archetto e delle preparazioni manuali, da quel sentimento tipico che l’ha contraddistinto e allo stesso tempo attanagliato nei secoli che corrisponde all’aggettivo austero. Le pressanti rappresentazioni di Loriot giocano sul particolare, sui microtoni, sull’ascolto armonico, per esprimere l’infausto procedere dei nostri tempi con stati divisi tra l’ebbrezza e l’esagerazione nelle tonalità acustiche, in una maniera che non guasta affatto il gusto intelligente della scoperta.