Il Kenya ha subito musicalmente l’influenza della posizione geografica rivestita: posta a centro-est del continente africano, la regione è un’importante cerniera di congiunzione tra la popolazione sub-sahariana posta nel Sudan e nella parte terminale del Corno d’Africa e quella sudafricana. Avendo confini ibridi, anche la sua musica si è sviluppata in molte diramazioni, ma la recente storia indica una sorta di cristalizzazione sul genere di suono prodotto. Il taarab, genere tradizionale di canto e musica importata dalle culture arabe, largamente diffuso nel paese, si è fuso in una dinamica musicale fatta di influenze provenienti dalla rumba cubana e dai ritmi congolesi; oggi il principale motore stilistico della musica popolare kenyana è il benga, un modello portato alla ribalta dopo l’indipendenza del 1963, grazie a musicisti popolari come Daniel Owino Misiani; tuttavia il benga può considerarsi un risultato musicale e non certamente un’origine. Riguardo a quest’ultima è essenziale dire che alcuni gruppi etnici del Kenya hanno profuso un interessantissimo profilo folk fatto di canto, di strumenti tradizionali (tra tutti la lira nyatiti) e di costume; la gente Luo, un’ampia aggregazione etnica che vive in molta parte del Kenya e che raccoglie la provenienza familiare del presidente Obama, si è cimentata con una propria identità musicale costruita su un raffinatissimo suono ancestrale condito di usanze e tematiche sociali. Nel 1993 a rinverdire questa tradizione, nella fase di piena maturità temporale della world music, ci pensò Peter Gabriel, che invitò a registrare presso i suoi studi colui che poteva essere considerato il leader di questa elegante sollecitazione musicale: Ayub Ogada pubblicò un cd intitolato “En mana kouyo” e divenne una star internazionale sia per la compostezza e la gentilezza della sua personalità e della sua musica, sia per aver partecipato alle colonne sonore di un paio di films fortunati come Out of Africa di Redford e The color purple di Spielberg; dopo un lungo periodo vissuto negli Stati Uniti e tanti concerti in giro per il mondo, Ogada è ritornato a vivere in patria e dopo uno iato di 22 anni lo si può risentire in una sessione fatta con il produttore Trevor Warren, che lo ha stimolato a suonare e ad incidere avvalendosi anche di un minimale e mirato supporto strumentale. “Kodhi” rappresenta una versione aggiornata di En mana kouyo, poiché migliora la qualità del fascino musicale esercitato dalla soluzione di Ogada tramite gli arrangiamenti; quello spirito folk tipicamente afro che anima il canto e il nyatiti di Ogada e che in alcuni momenti sembra avere delle naturali connessioni con il folk occidentale (somiglianze che riportano alla dolcezza di un Martyn o del Nick Drake di Bryter Later), trova qui qualità ulteriori nel maggiore ipnotismo impresso alle battute strumentali (Touré od Hooker sono dietro l’angolo), nella maggiore completezza artistica raggiunta nei monologhi/dialoghi vocali e nelle interessanti soluzioni produttive plein air.
In Kodhi c’è un’evidente differenziazione dai principali generi del Kenya (dal benga al kanyani) che non insiste sulle usuali forme ritmiche congolesi, ma sul canto, sull’uso avanzato del nyatiti e su un regime percussivo che ne stabilisce coordinate uniche.