Qualche riflessione sulle ultime novità di Setola di Maiale, sperimentali e con un livello di qualità molto alto.
Comincio da Luciano Caruso e il suo progetto di Links, che arriva alla sua terza conclusione. La materia trattata da Caruso al curved soprano sax ha molto a che fare con le cognizioni di un’estetica che si basa sulle percezioni, sulle ricognizioni delle partiture grafiche e sulle possibilità di dare un senso a mappe o relazioni condivise dalla semiotica e dalle reti informatiche. L’esperienza che viene presentata questa volta, è il risultato di un approccio a 4 elementi, 4 sassofoni ognuno con il suo tipico registro (oltre al soprano di Caruso, Walter Vitale all’alto, Lorenzo De Luca al tenore e Ivan Pilat al baritono): +4 links n°3 – Will (Perceptive flow approach to music) è composto da 7 pezzi di musica che ruotano intorno allo studio dei modelli percettivi, qualcosa che parte dal Treatise di Cornelius Cardew, da esperimenti che odorano di una complessità che si avvicina ad alcune visuali di Braxton o Coleman, subodorano anarchie musicali e specificano anche una certa filosofia di Adorno, quando egli affermava che le contraddizioni di una musica fanno emergere la natura dei materiali, come alienazioni che la rendono più umana. Consci che per questa tipologia di musica è necessario un ascolto piuttosto attento e rigoroso, ciò che si presenta all’ascoltatore sono solo sette incomprensibili relazioni matematiche che formano la titolazione: la decodifica va fatta cercando di agganciare un linguaggio, quello che i musicisti si scambiano sulla base di una serie di segni o simboli di una partitura che lascia un gran spazio all’interpretazione esecutiva. Si vivono, così, delle sintomatologie variabili: quelle lente e compresse delle iniziali NcR – RcN o Will, pezzi in cui l’incastro dei registri riesce a procurare una speciale sensazione tra l’ovattamento e la reazione; quelle relative alla prestanza e il sincronismo degli incroci multifonici in f(g)=S-∞f(x)e-n∂xC dx; quelle di T=Fpcos(∂)+Fc, dove si opta per una mediazione degli armonici con una movimentata trama sub-lineare.
L’immagine di un taxista proletario, portavoce e baluardo concreto di una società di cui saggia le potenzialità tutti i giorni, è fenomeno sperimentato nelle arti e fu un cavallo di battaglia di Scorsese. Tuttavia si può puntare anche sui godimenti ottenuti dal viaggio, senza dover palesare proteste di nessun tipo: il taxi diventa, dunque, il mezzo per far scorrere l’immaginazione, sostenere l’espressione musicale in quanto “…smaller vehicles, enhanced capabilities, are able to traverse quickly to unimaged places…“: Pat Battstone ha puntato su un progetto libero, dove ognuno porta in concreto il suo credo artistico e c’è pienezza degli obiettivi e dei risultati, soprattutto nelle connessioni con le cantanti pugliesi. Last taxi – Traveling light si misura, questa volta, con la vocalità aggiunta di Marialuisa Capurso, e si dirige verso un free jazz con plurime contaminazioni, dagli sviluppi maturi e spesso densi, intimamente conturbanti, che rivelano la bravura dei partecipanti: questa volta Battstone tiene saldi i legami di una band votata al free jazz di qualità (gli assoli di Todd Brunel e l’incalzante sezione ritmica tenuta da Chris Rathbun e Joe Musacchia non permettono altre interpretazioni), aggiungendo i benefici di un Fender Rhodes e di una cantante come la Capurso, che è in grado di farci rammentare di come molti reparti storici del canto siano ancora utilizzabili in cornici di frequente anticonvenzionalità; se Battstone suona benissimo il piano, scorrendolo senza briglie e lasciando per pochi minuti anche l’impressione di impostare classicità, la Capurso cerca di ridefinire le strutture, con declinazioni plurime e trasversali del canto: nello specifico,
1) si scontano le inflessioni linguistiche (senti Trasmission warp),
2) i sussurri e le reazioni più introverse degli standards del jazz americani,
3) una venatura “popolare” francesizzata di quelle che potrebbero benissimo figurare come colonna sonora di un film della nouvelle vague o del primo Bertolucci, o che quantomeno impongono la teatralità della performance (Molten Dreams),
4) una coerente versatilità alla sperimentazione più raffinata (la Monk in Sandstorm in Tangiers si apre a Jeanne Lee),
5) il sigillo degli umori avviene con interposizione di music box, campanelli, ocarina (Toy Room).
Non è un caso che tutti i musicisti si producano in una jam complessiva priva di contraddizioni, ma è un clima che si autogenera quasi spontaneamente e che affascina parecchio. Poi, in Italia, dovremmo fare molta più attenzione a talenti come quelli della Capurso.
Gli insoliti connubi tra timbri strumentali differenti sta diventando una costante di molte produzioni della Setola di Maiale. Ora è la volta di documentare le relazioni musicali di un’improvvisazione svolta tra il polistrumentista ai fiati Ove Volquartz e l’organista Peer Schlechta, nella chiesa di Neustadter Kirche a Hofgeismar, nel novembre del 2017. Dreizweit (questo è il titolo dell’intera esibizione smistata su cd) oltre ad essere un’eccellente dimostrazione della fondatezza delle capacità spaziali degli interni dei luoghi religiosi, è anche una spettacolare finestra che si apre sull’ampiezza timbrica degli strumenti e sull’ingegno delle amalgame sonore. In Dreizweit colpisce il disegno complessivo, un supersuono in cui le amplificazioni naturali di clarinetto, clarinetto basso, sassofono o flauto, distese astratte come in una tela, sono coniugate da linee di organo che mandano in circolo giri atonali di note o ristagnano in maniera irregolare sul feedback acustico che l’organo stesso produce già all’atto della sua accensione: una sorta di carburante di un motore in avviamento.
Sono lunghe improvvisazioni che liberano i pregiudizi di forma, che traggono il loro valore proprio dall’interazione, con gran fatica a trovare protagonismi o paradigmi che possano imporsi: veniamo gettati in un limbo dannatamente agro ma piacevole, che stimola un surrealismo sonoro squisito. Certo è che Dreizweit certifica (qualora ce ne fosse bisogno) in maniera definitiva la bellezza del pensiero free di Volquartz che, dopo aver silenziosamente contribuito alla nascita della libera improvvisazione in Germania, quando è ritornato ad incidere stabilmente l’ha fatto sempre nel migliore dei modi, concentrandosi specificatamente sulle possibilità timbriche del clarinetto basso, qualcosa che veniva di pari passo sviluppato nella classica contemporanea. Quanto a Schlechta, l’insolito approccio si distanzia da qualsiasi aspetto prodotto dall’improvvisazione degli ultimi trent’anni: per questo insegnante, specialista dell’organo fuori dai canoni, è fuorviante persino un riferimento a Zorn, perché Schlechta non ha la sua abrasività, nè ha la stessa tensione dello stile di un Kit Downes (che con Tom Challenger può essere richiamato in causa come esperimento similare tra quelli recenti*); il suo stile ha qualcosa di unico, perché riesce a tenere in vita auralmente un moto sensorio misterioso, una pseudo-realtà tutta contenuta nell’andamento musicale.
Uno dei modi con cui si manifesta la saggezza produttiva di Stefano Giust è quello di tenere anche una finestra aperta sull’universo improvvisativo statunitense. Search versus Re-Search è, infatti, il titolo di un cd del quartetto rinnovato dal chitarrista Jeff Platz, il cui merito è quello di aver costruito aggregazioni professionali di musicisti nel rispetto di una visione improvvisativa che tenta di aggiornare concetti venuti fuori sessanta anni fa. Attorno a Platz, ci sono molti artisti, giovani e meno giovani, che la storia dell’improvvisazione la fanno in maniera silente e Platz ha trasferito spesso le sue competenze anche in Europa, grazie ai proficui rapporti con istituzioni musicali, festivals ed improvvisatori tedeschi ed italiani (da noi con Succi, Sacha Caiani, Delvo). Assieme a Stephen Haynes (insegnante, allievo di Dixon, specialista della tromba e della cornetta), Damon Smith (contrabbasso passato attraverso la lente di Kowald, l’American Jungle Orchestra di Eneidi ed una serie interminabile di collaborazioni importanti) e Matt Crane (invero per me una sorpresa alle percussioni), Platz incorpora una visione consolidata dell’improvvisazione libera, quella che raccoglie la creatività nei suoi rivoli e mette in risalto le potenzialità espressive dei singoli musicisti. Non c’è un modo più “crudo” per verificare le capacità improvvisative di un artista, se non quello di regalargli uno spazio di libertà in cui deve condividerla con altri improvvisatori: c’è qualcuno che non sopporta partners occasionali, altri che invece cercano ampie condivisioni e Platz probabilmente è più incline alla seconda categoria. In questo cd suoni quasi segreti e ricercati (grazie a sordina, modalità kitchen sound, estensioni e tecniche senza grammatica) compongono un ottimo quadro d’assieme, dove ognuno non ha un compito prevalente, ma la cui perizia democratica permette di soddisfare l’esigenza di una musica completamente aliena alle pastoie musicali del mondo, in grado di regalarci atmosfere e luoghi di destinazione totalmente vincolate alle fecondità istantanea di menti che possiedono il dono di saperle coniugare (vedi quanto succede in Midnight and Noon).
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Nota:
*per una breve disamina delle soluzioni sassofoni contro organo, vedi qui