Nella personalità di uno dei più sottovalutati compositori italiani dell’era Darmstadt colpivano un paio di passioni extramusicali che furono con molta evidenza la sostanza del suo operato musicale: Aldo Clementi, catanese di quelli che sentivano il richiamo della propria terra come una necessità improrogabile, era un appassionato della pittura informale e dell’astrologia. Molta critica specializzata internazionale detronizzò la sua figura (tra tutte spicca quella di Deliége), soprattutto quando Clementi lasciò definitivamente il mondo della serialità per dirigersi sulle potenzialità del metro e della tessitura compositiva. Con Ideogrammi II, Triplum o le versioni di Informel, Clementi venne coinvolto dall’allargamento delle visuali prodotte dalla condotta accademica su alea e dissolvenze sonore, e dovette in qualche modo soffrire le malsane equiparazioni per identiche operazioni effettuate in quegli anni (sessanta circa) da Ligeti, che avevano riscosso un maggior clamore (vedi la sua Atmospheres); il presunto abbandono di quella specificità venne addirittura visto in una luce vetusta rispetto all’audience, che nel frattempo si srotolava. La verità è che Clementi, pur avendo semplificato parecchio le sue strutture, restò sempre affezionato al suo stile sospensivo, che era anche il suo target ultimo ed essenziale: creare tessiture che potessero rendere l’idea di percorrere zone della materia senza forma, apparentemente prive di significato, per indurre la riflessione e il “movimento” mentale anche di fronte all’immobilità conclamata; pensate alle similitudini di quelle osservazioni che ognuno di noi potrebbe fare nel pensare o guardare un planetario allargato al sole e al cosmo senza veicolarne la propria velocità.
Fa enorme piacere la pubblicazione di una speciale canalizzazione del lavoro di Clementi, compiuta sul sassofono: in un momento difficile per la musica contemporanea e per le sue intersezioni, l’Amirani di Gianni Mimmo persegue quella riscoperta temporale (mai anacronistica se intinta nel valore) che permette di realizzare commistioni tra la materia jazzistica e quella contemporanea, e lo fa tramite le trascrizioni di composizioni di Clementi (per piano solo o per archi) effettuate del sassofonista Manuele Morbidini. Studente di Clementi, Manuele Morbidini guida un quartetto di ottimi sassofonisti provvisto in tema da agganci trasversali tra improvvisazione e contemporanea (Pasquale Laino -Orchestra Sinfonica della Rai/Sentieri Selvaggi Ensemble-, Rossano Emili -Filarmonica Romana/tutta una serie di jazzisti importanti- e Pedro Spallati -ottimo tenorista con rilevante impegno nel jazz).
“Four saxophones” si basa sulla sovrapposizione degli strumenti e sull’emersione di una struttura che regga l’ideale del compositore italiano: si tratta di sottolineare linee contrappuntistiche o linee melodiche ricavate dall’inarmonico, tenendo in mente linee di blues o di improvvisazione jazzistica. Clementi sembrava conoscesse queste rispettose evoluzioni del pensiero di Morbidini e gradisse anche una registrazione a cui però non ha potuto assistere: operare sugli armonici in modo coordinato e su tempi e pause dei suoni mandati alla distillazione, rimanda quasi all’origine non controllata dei suoni, e paradossalmente alla disintegrazione dei modelli riconosciuti (anche i canoni, textures o momenti di Clementi forse si trasfigurano non esplicando il loro naturale significato), per sviluppare quell’ambientazione sonora che Morbidini precisamente chiama “static rotational space”. Non c’è dubbio che i blues spettrali o la textura ipnotica in Four Saxophones risponda a più di un’esigenza, poiché suggerisce diversità dal confronto con l’originale specie nell’uso degli armonici e lancia uno sguardo profondo sulle possibilità liminali della musica che vanno ricercate nell’ascolto ripetuto ed attento, così come inveivano le sensazioni di Clementi.