L’ambient music odierna si compone di un grosso ventaglio di scelte: generi e sottogeneri in forma multipla, intersezioni con l’attualità digitale e rappresentazioni con sfumature umorali, hanno prodotto un ampio raggio d’azione che, in verità, non è più controllabile all’occhio critico. Si è compiuto un processo di consolidamento, in cui l’iniziale e crescente audience di questa specificazione dell’elettronica sembra aver abdicato a favore di una nicchia, anche consistente, di pubblico che imperterrita dimostra un attaccamento ad una formula che è per lo più in ristagno: uno dei motivi principali per cui l’interesse è senza dubbio scemato nel corso degli anni è la denuncia fatta da alcuni saccenti detrattori, che ne impongono la mancanza di innovazione. Tuttavia andrebbero effettuate delle precisazioni: se è vero che nella maggior parte dei casi mancano idee nuove sullo sfruttamento di sintetizzatori e tecnologia analogica, è anche vero che il pensiero di molti si è focalizzato erroneamente solo sull’innovazione di prodotto e non di processo. Sotto quest’ultimo aspetto, poi, sono veramente in pochi i musicisti che hanno approfondito senza retorica le possibilità dei percorsi armonici sfruttabili da un drone o da una texture musicale, attraverso quell’esperienza continua del sentire e risentire un riverbero o una particolare risonanza impostata dalla tecnologia.
Gli ultimi avalli compiuti da Max Corbacho portano proprio i segni di questo percorso: nel momento in cui sembrano ridursi i colpi di genio che per più di un ventennio avevano accompagnato l’ascolto di certa ambient music strutturata sulle origini cosmiche (l’inevitabile pensiero va a Roach, Rich e spesso a Carthy tra quelli oggi più attivi), l’opera di Corbacho è realmente un’oasi di benessere ricercato che non può non essere presa in considerazione: l’importanza del saper coniugare in funzione subliminale la riflessione musicale di un tema è qualcosa su cui molti musicisti hanno sprecato il loro tempo: questa è un’attività difficoltosa, che non ha bisogno di spartiti per compiersi, che trova la sua fertilità esclusivamente sul tempo perso in uno studio (probabilmente casalingo e piccolo) per studiare gli effetti psicologici di uno o più suoni. Sia nella lunga e magica “Future terrain” (una suite di 58 minuti impostata per descrivere un futuristico scenario di un universo frantumato), sia nei 6 episodi di “Splendid labyrinths” (che richiama il lato suggestivo dei labirinti mentali costruiti dall’uomo), si avverte quel dosaggio impalpabile di elementi che è un magnete del trasporto, qualcosa su cui hai la sensazione di non poter fare niente di meglio dal punto di vista musicale. Inoltre si insinua una riflessione interiore, capace di dar sfogo ad una grande anima in funzione di guida, attraverso la perizia delle soluzioni cercate, una potente ed ineffabile coscienza che parla proprio attraverso queste ventate sonore tanto ben congegnate. E direi che nel caso di Max, si tratta anche di una coscienza molto più razionale del previsto, meno radicalizzata nelle empatie orientali e più libera da quella sorta di schiavismo quasi automatico nei confronti di sonorità e di riferimenti eloquenti al mondo orientale, insinuatisi nel pensiero dei musicisti elettronici che hanno calcato anche la scena europea. D’altro canto il suo “The ocean inside“, senza dubbio una delle migliori raccolte di sempre del genere, non arrivò certamente a caso su quest’aspetto, essendo il frutto di quanto seminato da “The resonant memory of earth” .
Spesso penso alle ore perse da Corbacho nel suo studio (che in alcune foto sembra illuminato da una arcana luce artificiale) per arrivare al suono giusto, consono agli scopi, e non vi nascondo che invidio queste prodromiche scoperte a cui non posso partecipare e che giungono a me, solo in un inesorabile secondo momento.