“Tunguska” è sontuosa, compete con le migliori espressioni del jazz improvvisativo nordico, “Il pasto crudo” è techno jazz intellettuale, “..l’assalse il sovvenir” vi manda in orbita, “Nachtraglich” sembra un aggiornamento musicale dell’urlo di Munch, mentre la finale “Delle multe crepe” potrebbe costituire la chiave di volta della musica del gruppo per come l’ho descritta. Un lavoro affascinante, resa ad alti livelli (vedi qui un breve spezzone di una loro esibizione).
I Forefront sono il gruppo formato dal pianista napoletano (ma rientrante nell’orbita romana) Jack D’amico: nato come trio con sezione ritmica jazz (Umberto Lepore a basso elettrico e contrabbasso e Marco Castaldo alla batteria), il gruppo si è arricchito della partecipazione fondamentale del sassofonista Antonio Raia e, solo per la registrazione di un brano di “Chaos Magnum”, si è avvalso della presenza di Giacomo Ancillotto (alla chitarra e rumori). L’interesse sul gruppo romano è stato amplificato dalle note estimative del pianista svizzero Colin Vallon, conosciuto tramite Fabian Sbarro, artista visuale svizzero che collabora con il pianista d’oltralpe: Colin è rimasto entusiasta della proposta musicale del gruppo e li ha voluti di fianco ai suoi concerti. Così come dichiarato e percepibile dalle loro impostazioni di programma, i Forefront si indirizzano ad un tipo di improvvisazione jazzistica che si abbina a quel sentiment che deriva dalla musica contemporanea: D’Amico nel 2010 ha creato un ensemble radicale di improvvisazione, il Collettivo Crossroads Improring, suonando sia il piano (anche preparato) che il fender rhodes, ma è indubbio che Chaos Magnum punta ad affinare le capacità stilistiche; il piano di D’Amico infatti raccoglie molte istanze della musica moderna del novecento poiché si muove distillando arpeggi dell’amata Repubblica francese di inizio novecento, importunando le preparazioni stile Cage e le ondeggiature di Feldman, mentre lo stile organistico richiama alla memoria (in una dimensione necessariamente ridimensionata per ampiezza) le manifestazioni organistiche atonali dei compositori moderni messi contro i fender rhodes della generazione dei jazzisti dei settanta. Non è assolutamente una ritirata dal jazz, anzi pensate il contrario, è quest’ultimo che si ravviva: si tratta di accondiscendenze di stile, non di pieni approcci verso il mondo contemporaneo, ma comunque tali approcci sono utili per rendere più accettabili i rapporti tra il jazz e questa incompresa configurazione musicale moderna; così il sax di Raia (notevolissimo e prezioso elemento di questa prova) scova negli anfratti che appartengono a Ligeti, citando lo studio pianistico n.2 di Musica Ricercata, in una versione eseguita nella Fete Verte in cui però la struttura si trasforma ad un certo punto in una delirante cavalcata free alla Brotzmann.
Marino José Malagnino è di Mesagne ed è certamente una realtà fuori dai canoni persino nell’ambito della musica improvvisata. La caratteristica bizzarra del musicista è quella di avere un’idea sempre diversa per i suoi progetti, circostanza assai rara da trovare nella musica: la partenza, l’esordio di “Pop” era un’ironica incursione nella società odierna, che si basava su una nuova di definizione di “popolare”, quella costruita su un puzzle di elementi contraddistinto dalla comune mortalità di tutti i giorni: l’inflessione delle voci, i fraseggi di un’intervista, i suoni tipici degli oggetti con cui siamo usualmente circondati (telefonini, reclames, casalinghi, etc.); con Stefano Giust ha inciso poi un cd L’Amorth Duo, un progetto di improvvisazione libera basata sul rispetto dell’etica dei suoni domestici. La solita estrosità caratterizza anche il packaging di “AMR” (copertina fatta in casa con cartone, stoffa e collanti), quattro tracce recentemente composte che cambiano ancora direzione; si nota un tentativo di creare qualcosa nei campi del glitch elettronico: crepitii da dischi in vinile rovinati, stringhe completamente stonate di piano preparato, campionature di suoni che hanno densità variabile tra l’annunciazione e l’evento funebre, ambientazioni concrete e dronistiche: Harry Partch e i cultori della Edition Mego sono molto vicini, quantomeno a livello di pensiero.
Ma l’avventura più originale del pugliese che più si avvicina ad una materialità jazz, è stata la deviazione in stile Cage di “Pss pss pssss Qua’ndo lu cautu se morì”, qualcosa che incrociava i sensi primordiali delle conductions, il non sense alla Zappa maniera, gli happening culturali. L’esperimento si basava sulle indicazioni impartite da Malagnino ai musicisti della sua “orchestra” in tempo reale (vedi qui un’esibizione): suggerendo a turno nelle orecchie degli improvvisatori il motivo da suonare, gli riusciva di organizzare un’improvvisazione real time senza essere l’esecutore della stessa; come lo stesso Malagnino afferma, è come utilizzare in maniera creativa un campionatore di suoni, solo che l’oggetto della campionatura viene trasferita nella mente “acustica” dell’improvvisatore. Anche dal punto di vista musicale la proposta acquisisce un tenore positivo, che richiama ritmiche controtempo e ripetizioni strumentali che si avvicinano alle bizzarre accozzaglie delle formazioni jazz rock di Zappa o Beefhart, ma con un grado di assoluta semplicità inventiva. Dicevo Cage prima perchè opere come questa provocano nell’ascoltatore quello splendido interrogativo che spesso ricorreva nei lavori dell’americano: non siamo in grado di capire se si fa sul serio o ci si sta prendendo colossalmente in giro.