La seconda ondata di improvvisatori europei che hanno incominciato a mettersi in evidenza agli inizi dei novanta (anni in cui l’improvvisazione libera si risollevò da una crisi che sembrava duratura), fu molto diversa dalla prima: in Europa il free jazz, l’antecedente naturale della free improvisation, adottò sembianze diverse a seconda della nazione in cui veniva praticato. Ciò che fu invocato a livello stilistico consisteva nell’abbinare i percorsi della classica a quelli del jazz; in Germania i jazzisti migliori si presero cura di spostare l’asse della comunicazione musicale verso prodotti radicali, in Francia prevaleva un tipo di jazz adulto e raffinato, in Inghilterra si accoglievano le istanze progressive, in Italia sorse una certa familiarità con le melodie operistiche, in Olanda gran parte degli improvvisatori propendevano per un free jazz con chiare ascendenze teatrali.
Tutto questo subì un’implosione dopo la ripresa del periodo difficile degli ottanta: si fece subito strada l’idea di una standardizzazione a livello europeo del linguaggio, che non possedeva più (o lo possedeva solo nei musicisti imperterriti corridori del loro percorso artistico) la diversità con cui si era distinto dal jazz statunitense, costringendo gran parte dell’élite musicale jazzistica d’Oltre oceano a fare continue puntate in Europa, anche ai fini di un assorbimento di quel linguaggio. Il processo di omogenizzazione dell’improvvisazione europea seguiva le novità che derivavano dalla modifica con cui veniva concepita l’improvvisazione stessa. La nuova grande realtà era l’elettronica o la possibilità di costruire delle sintesi elettroacustiche: se già in America musicisti come George Lewis o Anthony Braxton facevano uso di programmi interattivi per l’improvvisazione, in Europa ci si attrezzò (con poca chiarezza e mancanza di informazioni) attraverso intraprendenti formazioni musicali che svolgevano i loro concerti tra manifestazioni specifiche e sedi accademiche: se da una parte questi nuovi improvvisatori non avevano nulla da invidiare tecnicamente ai loro predecessori (ancora la prima ondata), dall’altra rischiavano di dare un contributo al milite ignoto per via del carattere sperimentale che andava assumendo la loro musica.
In Olanda uno dei sassofonisti più sottovalutati della seconda ondata è stato Luc Houtkamp: nel suo primo eccellente solista del 1992 registrato ad Amsterdam tra l”88 e il ’90, intitolato “The songlines“, Houtkamp mostrava già una maturità impressionante che volteggiava in maniera esemplare nella regolazione delle numerose tecniche estensive: pochissimi in Europa avevano la sua caratura a quei tempi e l’olandese mostrava anche di poter dare un senso figurativo alla sua improvvisazione al sax alto o tenore, ma l’attività di libero arbitrio veniva comunque condivisa con la realtà del live electronics e del controllo computerizzato dei suoni: in tal senso “The Rule of Thumb” nel ’93 (con Teitelbaum e Lewis al suo cospetto), rivelava un’idea che fu poco considerata dalla stampa specializzata, ossia improvvisazione frantumata in un mare di soluzioni musicali che per la loro compattezza avrebbero potuto essere legate a quelle di un compositore e che indicavano una propensione al movimento gestuale: Houtkamp impartisce una fondamentale importanza a quel connubio di suoni che agiscono in concomitanza con la psiche o le immagini, quei suoni che possono imprimere una forte valenza nel circolo dei ricordi che contano, specie in un campo misto così difficile da consentirne il pieno risultato e, per tale via, creare indirettamente un impianto narrativo; si diceva gestuale poiché l’olandese utilizza spesso in combinazione alcuni idiomi che potrebbero essere derivazioni di una partitura scritta così come di uno slancio improvvisativo: l’espressione “sintetica” è spesso frutto di un “movimento” creato da una periferica volante collegata al computer, dal tipico perdurare ritmico dei passi di un ballo o da un vocoder non allineato alla voce reale.
Houtkamp ha praticamente accantonato per molti anni l’esperienza improvvisativa tradizionale per dedicarsi all’idea elettronica, impostando un gruppo apposito chiamato Pow Ensemble: in esso confluivano musicisti poliedrici, in grado di dare significato alla gestualità e al suo significato musicale subdolo. Utilizzando una filosofia equivalente a quella del Pow Ensemble, Houtkamp è probabilmente giunto a maturazione con “Quattro concerto” (vedi qui un teaser dal vivo), un geniale tentativo di incorporare scrittura, improvvisazione, dance moderna e sacralità, minimizzando le differenze.
Non penso si sia chiuso un percorso, anzi, forse si sta maturando una convinzione ancora più forte ed adeguata ai tempi (basti pensare al nuovo progetto di Roastbeef in cui si intromette anche la poesia), ma gli è che Houtkamp è tornato al classico trio improvvisativo lo scorso anno imbastendo una collaborazione con Simon Nabatov e Martin Blume (con cui ha collaborato varie volte in passato): “Encounters” è quasi un workshop sull’improvvisazione effettuato in condizioni di eccellenza; basato su un ipotetico tema del confronto, è un modo per riascoltare la veemenza mai fine a sè stessa del sassofonista, il suo taglio sonoro segmentato, al cospetto di due eccellenti improvvisatori come Nabatov e Blume che raccolgono e condividono in equa misura le immagini espressioniste fornite nella musica.