Afro Garage: Eighteen Ways to Miss Egypt

0
469
“Eighteen Ways to Miss Egypt” highlights the center of gravity of improvisation. It deals with a varied, oblique and ironic, ethnic and insightful situation, with a good degree of oddness—a different way of organizing music in that part of Africa, carried out with weapons of creativity which aren’t arcane and are far from insensitive replicas of ethnic canons; these walks on the streets of Cairo and Thébes are integrated modern musical sketches that accept, in a serene way, the perspective of a sagacious trio of Swiss tourists.”
__________________________________________________________________________
Quando si parla di arti in abbinamento c’è sempre la paura di non poter o saper coordinare le differenti prospettive dei sensi umani per elaborare un risultato unico: uno dei campi battuti massicciamente ma spesso senza intelligenza è stato quello dell’incontro tra musica e fotografia e ancor più tra musica e cinematografia; quest’ultima relazione nel campo dell’improvvisazione libera assume poi contorni ancor più indefiniti, giacché la realtà degli improvvisatori sembra non spingere in tal senso. Jacques Siron, contrabbassista e regista svizzero, nonché musicista che ama definirsi “audiovisuale” è tra quelli che sta affrontando l’enigma dell’ascolto svincolato dalla rappresentazione visiva; uomo di cultura, cultura sostenuta in ogni modo (l’associazione interdisciplinare del Raac, il movimento ginevrino 804 rivolto alla creatività, l’aggregazione dell’AMR tesa allo stimolo delle musiche improvvisative, il sindacalismo per i musicisti svizzeri e l’ostracismo ad oltranza verso le radio svizzere), Siron ha imbastito diverse soluzioni improvvisative in cui si è circondato di colleghi naturalmente a lui affini nel pensiero: tra queste, quella creata come Afro Garage con il pianista Christoph Baumann e il percussionista Dieter Ulrich, è stata quella deputata al sostenimento delle strutture cinematografiche: il trio ha improvvisato molto nel tempo, ma registrato solo due albums (Afro Garage nel ’93 e All there was nel ’98); il terzo arriva grazie alla Leo R. per documentare proprio la tendenza verso il cinema e la fotografia di Siron. Si tratta del meglio delle colonne sonore dei due lungometraggi assemblati dal contrabbassista svizzero: Thébes à l’ombre de la tombe e il recentissimo Les Mille et Un Caire, due films dove sono banditi i dialoghi e tutta l’immagine è affidata alle cure dell’autore della fotografia cinematografica, Pio Corradi e alle musiche del trio.
Sirone indica anche le linee principali d’approccio ..“…Or pour entrer dans le propos du film, il faut aussi s’abandonner au plaisir de l’écoute. L’évocation de Thèbes passe par une immersion sensuelle dans les matières de base du cinéma: l’image, le son, la musique, l’écoulement du temps, l’articulation de séquences et d’histoires, le déroulement d’espaces imaginaires dans lesquels dialoguent l’œil et l’oreille….”.
Quindi “Eighteen ways to miss Egypt“, lungi dall’essere una noiosa operazione da documentario, mette invece sulla bilancia il peso specifico dell’improvvisazione: purtroppo non avendo le immagini davanti non è possibile fare una valutazione complessiva, ma rimanendo solo sulla musica si arguisce come almeno l’idea musicale sia di tutto rispetto; è una struttura varia, che rappresenta anche una denuncia culturale aperta verso certi comportamenti, quasi una compo-improv tematica, che si adopera per creare similitudini adatte anche ad un ascolto disgiunto dalle prese di potere dell’immagine. E’ trasversale ed ironica, etnica e perspicace, e possiede un buon grado di sindromi da bizzarria; il contrabbasso di Siron è qualcosa che incrocia Mingus, la linea disarmonica del contrabbasso free e lo spirito dei non sense di Zappa, in un dialogo che lo mette in competizione con la vocalità concomitante, frammentata o ragliata dell’autore; al piano Baumann esibisce in maniera sintetica tutte le sue figure, da sprazzi atonali alle dolci note jazz di Can I keep a picture of this?, mentre le percussioni di Ulrich hanno un gancio nell’etnicità arabo-africana ed uno nei regni ritmici abissali del Tom Waits di Rain Dogs. Ma è sempre l’improvvisazione a prevalere e a fornire la visuale evidente. Un modo diverso di pensare musicalmente a quella parte dell’Africa, profuso con le armi della creatività, niente affatto arcano, lontano da repliche fuorvianti dei canoni etnici: qui le passeggiate per le strade di Thébes o del Cairo hanno già i sintomi dell’integrazione musicale moderna, poiché in maniera serena affrontano il punto di vista di un sagace trio di turisti svizzeri.

 

Articolo precedenteSimone Movio e le sue “Tuniche”
Articolo successivoSpanish guitar music
Music writer, independent researcher and founder of the magazine 'Percorsi Musicali'. He wrote hundreads of essays and reviews of cds and books (over 2000 articles) and his work is widely appreciated in Italy and abroad via quotations, texts' translations, biographies, liner notes for prestigious composers, musicians and labels. He provides a modern conception of musical listening, which meditates on history, on the aesthetic seductions of sounds, on interdisciplinary relationships with other arts and cognitive sciences. He is also a graduate in Economics.