Una recente ed interessante pubblicazione musicale che proviene dall’estero è quella della professoressa americana Lynn M. Hooker, etnomusicologia e grande esperta della musica della zona euroasiatica, che da tempo sta approfondendo quei rapporti spesso superficialmente discussi e trattati tra la musica classica e quella tradizionale ungherese.
Prendendo come riferimento le ultime recenti teorie che vedono una costante rivalutazione di un certo tipo di musica popolare ungherese, il volume della Hooker vuole scardinare ufficialmente molti preconcetti che hanno accompagnato le idee di molti musicologi e compositori riguardo all’argomento fino ad alcuni anni fa.
Con il sostegno di un’analisi storica efficace e minuziosa, la Hooker afferma la parzialità del rinnovamento nazionalistico ungherese, partendo dai suoi primi barlumi a fine settecento: l’idea che fosse stato Liszt a portare la musica tradizionale ungherese nel novero delle musiche nuove e possibili si scontra con il contenuto delle sue composizioni, che in una sorta di antitesi in itinere, vengono criticate dal maggior rappresentante della musica popolare trasferita nella musica classica, ossia Bartok.
Se Liszt rimaneva ungherese nei dati, sia per l’adozione dello stile che per il pensiero egli trovava conforto in paesi come la Francia o Germania: le composizioni rapsodiche o gli spunti di etnicità forniti nella scrittura furono confuse con la totalità della musica popolare ungherese, la quale invece essendo già uno stato formato in più etnie, presentava una situazione musicale tradizionale ben più ampia e diversificata: nel libro l’autrice chiama l’appoggio musicale fornito da Liszt al suo paese d’origine come Gypsy music, e lo contrappone all’Hungarian Style, che al suo interno annoverava altri aspetti non ricavabili dalle semplici opzioni usate dal compositore (soprattutto quelle di matrice ritmica).
Furono Bartok e Kodaly che diedero un rinnovato e veritiero impulso alla scrittura classica imbevuta di folklore: il frutto del cambiamento di pensiero era anche conseguenza delle rinnovate visioni politiche e sociali dell’ottocento che pian piano spostavano l’ottica dall’imperialismo al proletariato. L’attenzione data da Bartok e Kodaly alla musica popolare ungherese venne anche aspramente criticata in quegli anni, perchè formalmente rigorosa nel suo costrutto, non permetteva a molti di riuscire a capire dove fosse il suo ultramodernismo. Il ripescaggio ideologico della musica popolare passava da concetti come razza, purezza e flusso, ed era il risultato di un pensiero che instaurava con la musica popolare una sorta di transfer biologico: in definitiva rappresentava una sorta di Dna scolpito nella gente e nei luoghi (e da ricavare).
Vedere in questo modo il nazionalismo significava rigettare non solo un generico patriottismo (fattore che si rimprovera criticamente a Liszt), ma addirittura fissare le basi per un vero approccio alla letteratura popolare (non solo ungherese) per dimensioni ed estetica; significava compiere il primo passo verso quelle che furono le teorie successive di Adorno, impegnato a ricostruire i confini della musica popolare attraverso i risultati ibridi della composizione.
Il compositore Egon Wellesz, uno di quei compositori che più cavalcavano le idee moderniste di Bartok, essendo un seguace della seconda scuola viennese con origini ebreo-ungariche, fu perentorio nella definizione delle caratteristiche folkloriche utilizzate da Bartok e Kodaly nella scrittura di tipo occidentale:
“…..Bartók and Kodály are the founders of Hungarian national music, in contrast with the Gypsy music that has prevailed up until now. Setting out with a phonograph, they recorded folksongs everywhere and found a rich treasury of old Hungarian songs which originate in Byzantine melodies; these accordingly are not based on our major and minor, but on the old Greek modes. Both artists frequently base their works on these melodies, or imitations of these melodies in the manner of a cantus firmus, and thus endow them with a primeval power…..”.