Nell’epoca del sintetico e del digitale, la manualità del chitarrista norvegese Kim Myhr (1981) sembra fuori luogo. Kim è un musicista sperimentale la cui visione, perlomeno al momento, è divisa tra il fronte degli improvvisatori che discende dalle idee/tecniche di Bailey e gli approfondimenti sul fattore risonanza acustica. Il suo primo solo, lungi dall’essere un tentativo di effettuare un completo repechage della sua arte, si esprime quasi esclusivamente sul secondo dei fronti: Kim esordisce con “All your limbs singing“, dove si esibisce con una chitarra 12 corde che viene trattata come una cabina di pilotaggio della risonanza: in particolare più che l’arpeggio ciò che caratterizza la prova è lo “sventaglio” sulle corde che abbiamo ascoltato in molti chitarristi famosi del passato che provengono dalla rock music (i primi che mi vengono in mente sono Page, Oldfield che ne era addirittura un costruttore di essi e molta roots music statunitense): lo scopo di Myhr è di esaltare temporalmente le frammentazioni usate nella storia musicale a mò di mero sostegno del brano musicale e fare emergere le strutture armoniche del suo strumento allo stesso modo con cui un musicista drone cerca di far emergere i sovratoni dal processo di manipolazione digitale dei suoni: è una tecnica manuale che restituisce la difficoltà della perfomance (dal vivo addirittura Kim raggiunge durate di oltre trenta minuti, vedi qui) e che si basa su un appropriato uso del plettro sulle corde e delle note pigiate della mano destra. In definitiva un arricchimento vero e proprio dell’arte dello sventaglio, che mostra sonorità nascoste ed ulteriori, quelle che il musicista paralizza per paura di accrescere la monotonia della ripetizione.
Nelle note di presentazione Myhr cerca anche di fornire dei riferimenti stilistici: il suo ricorrere alle visuali del primo Ligeti o di Feldman, così come al folk purissimo di John Fahey è in verità solo un punto di contatto relativo che si avvicina a certe manifestazioni di pensiero di quegli autori, dal momento che in “All your limbs singing” le similitudini si arroccano nella sintesi: in tal senso un’influenza recepita potrebbe essere stata quella della composizione dei metronomi di Ligeti (lo sventaglio potrebbe riflettere l’armonicità di gruppo creata da strumenti non aventi quelle caratteristiche), dello spirito atemporale delle suites agli archi di Feldman (le esibizioni prolungate richiedono un’attenzione ed una compostezza esecutiva che era fondamentale nelle composizioni dell’americano) o dell’encomiabile trasposizione geografica delle composizioni artigianali di Fahey (l’influenza spiritualmente più vicina a Myhr).
Non so se questa esperienza possa essere ripetibile: Myhr sembra dar uguale o maggior peso anche alla sperimentazione più consolidata, soprattutto condividendola sia attraverso specifiche dualità con altri improvvisatori, sia nell’àmbito di formazioni ad ampio raggio (1); la Trondheim Jazzorchester, un collettivo variabile di improvvisatori nato per eseguire commissioni di musicisti diversi, ha accolto con profitto anche un suo progetto: in un posto dove al suo interno l’improvvisazione viene segmentata per offrire una più completa libertà stilistica ai solisti o a gruppi di essa, Myhr ha indicato altre direttive. Nel frattempo “All your limbs singing” conferma il coraggio interpretativo che caratterizza la musica delle nuove generazioni di chitarristi del nord Europa.
Nota:
(1) di particolar pregio elettroacustico mi sembrano le collaborazioni con Philippe Lauzier, Pierre Yves Martel e Martin Tétreault di “Disparation de l’usine éphémere”, Ambiances Magnetiques, 2008.