L’apertura mentale dimostrata da Leo Feigin nel segnalare registrazioni appartenenti all’area dell’improvvisazione è stata anche funzione delle relative ampiezze che essa ha fornito: come giustamente rimarcato in varie occasioni, la buona musica deve essere pescata anche nelle espressioni meno radicali e magari più melodiche, anche al limite della leggerezza. Quello che bisogna avere è soprattutto un orecchio preparato alla multidisciplinarità e una competenza di base per saper interpretare le proposte che si hanno davanti: in un’etichetta discografica votata per la sua quasi interezza alla free improvisation non è compito facile quello di accordare le proprie idee su aspetti musicali non secondari che stimolano il nostro interesse.
Per ciò che concerne l’Inghilterra, paese in cui Leo ha avuto asilo discografico, da molto tempo ci si dibatte nel trovare punti di novità per generi passati sotto la lente dell’arte musicale nei decenni scorsi: in particolare lo sguardo è sempre a quei magnifici anni settanta che videro il paese britannico tirare fuori parecchi archetipi da esibire nel mondo musicale: senza dubbio, per ciò che concerne l’improvvisazione jazz, il pensiero corre agli organici costruiti sotto forma di orchestra, alle fusioni con il rock e soprattutto alle formule di Canterbury. Tenendo fede a questa linea, Leo propone due albums che esplicano questo concetto di acquiescenza della riproposizione: da una parte i Blazing Flame, il gruppo di Steve Day (ex giornalista, scrittore ed esperto di improvvisazione) con “Play high mountain top“, quarto cd per la Leo R., in cui stavolta vengono ospitati Keith Tippet e Julie Tippets; dall’altra Billy Bottle & The Multiple in “Unrecorded beam“, gruppo emergente legato alle influenze di David Sinclair (ex Caravan) e Mike Westbrook. Se dal punto di vista testuale si rimettono in gioco fonti letterarie notevoli, trattandosi in entrambi i casi di spunti di ispirazione presi dalla poesia (nel primo caso di matrice personale, nel secondo importata dal trascendentalista Thoreau), dal punto di vista musicale ed estetico questi esperimenti si prestano quantomeno a dubbi.
Su Steve Day l’empasse è costruito soprattutto sulla voce dell’artista che è esplicazione di un connubio ben evidente tra l’intonazione alcolica di Shane McGowen (Pogues) e quella prosaica di Tom Waits (nella versione con meno catrame): sebbene la musica eserciti una certa attrattiva, la vocalità di Steve non decolla, nemmeno pensando che essa possa essere quella di un poetico ubriaco. E lì che sta la chiave di volta: non si riesce ad attribuire una giusta enfasi all’operazione.
Così come non si riesce ad enfatizzare l’operazione di Billy Bottle, poichè in rapporto alla storicità mi sembra ancora piuttosto acerbo il suo tentativo di rivitalizzazione: il Canterbury sound era movimento in cui le originalità musicali provenivano dalla spinta strumentale, dall’attitudine a costruire delle jams in cui riconoscere le eccellenti qualità dei musicisti. Paradossalmente qui è più la parte melodica a colpire l’attenzione, fatta di elementi jazzistici raffinati che sostengono anche un’identità inglesizzata (molte inflessioni del canto si rivolgono idealmente a Norma Winstone).