Kelly David è un musicista ambient che solo nel 2002, a 48 anni esordì con “Broken Voyage”, un cd autoprodotto (ma poi ristampato) che proponeva viaggi oscuri e inconsueti vissuti nei perimetri marini. Il critico di AMG Jim Brenholts, lo considerò uno dei debutti migliori di sempre nel genere ambient e sicuramente tra i primi dieci albums ambient di tutti i tempi. A quell’album che vi consiglio vivamente di procurarvi, fece seguito un secondo episodio incentrato stavolta sui resti della città di Angkor, nella giungla cambogiana. Dopo 8 anni Kelly ritorna alla ribalta come compagno di viaggio di Steve Roach in questo “The long night”, come documentazione di una affascinante e incredibile passeggiata notturna intinta in suoni possenti e cavernosi.
Fin dall’apertura di “The last light”, ci si immerge nelle trame dei synths che lasciano già intendere che siamo vicini all’ultima luce disponibile prima di intraprendere manovre che ci porteranno ad agire al buio. “Season of nights” continua nell’attanagliamento psicologico: il sound elettronico è pieno di sfumature e perfettamente centrato per ottenere gli scopi, tanto che non sortisce assolutamente l’effetto fusione tra pensiero e musica. Quello che emerge è una serie di droni sfumati che si ritagliano il proprio spazio in presenza di un sottofondo/ “rumore” di bordo (ricreato dai synths che vengono lasciati fluttuare nelle loro amplificazione); “The deep hour” è il momento del benessere, in cui spunta una sorta di armonia celeste puntellata da oscuri tam tam sciamanici e da una bucolica progressione. “Calm world” è la conseguenza del brano precedente: un’atmosfera dilatata che annuncia uno stato di calma di orientale memoria che si infrange a circa metà del brano in un’estasi da scoperta del tesoro. La conclusione di “The long night” dà spazio a liquidi crescendi di synths che misurano il senso di soddisfazione e che sfumano dolcemente per poi ripresentarsi ancora, come in un ciclo biologico di piena vita.
Fin dall’apertura di “The last light”, ci si immerge nelle trame dei synths che lasciano già intendere che siamo vicini all’ultima luce disponibile prima di intraprendere manovre che ci porteranno ad agire al buio. “Season of nights” continua nell’attanagliamento psicologico: il sound elettronico è pieno di sfumature e perfettamente centrato per ottenere gli scopi, tanto che non sortisce assolutamente l’effetto fusione tra pensiero e musica. Quello che emerge è una serie di droni sfumati che si ritagliano il proprio spazio in presenza di un sottofondo/ “rumore” di bordo (ricreato dai synths che vengono lasciati fluttuare nelle loro amplificazione); “The deep hour” è il momento del benessere, in cui spunta una sorta di armonia celeste puntellata da oscuri tam tam sciamanici e da una bucolica progressione. “Calm world” è la conseguenza del brano precedente: un’atmosfera dilatata che annuncia uno stato di calma di orientale memoria che si infrange a circa metà del brano in un’estasi da scoperta del tesoro. La conclusione di “The long night” dà spazio a liquidi crescendi di synths che misurano il senso di soddisfazione e che sfumano dolcemente per poi ripresentarsi ancora, come in un ciclo biologico di piena vita.