Anime asciutte, procedimenti euristici, dialettiche turbinose ed epiche del jazz

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Qualche pensiero sulle ultime produzioni Leo R., alcune veramente interessanti.
Spero qualcuno si ricordi di uno splendido album per solo viola che lo svizzero Walter Fahndrich pubblicò per la Ecm R.: eravamo nel 1991 e si trattava di Viola. Con quell’album Fahndrich intercettava suoni ed umori che piacevano ad Eicher, ma non si poteva certo parlare di materiale ortodosso, abbinabile al leit motiv melodico che caratterizzava l’etichetta tedesca: per uno strumento che nella libera improvvisazione non godeva delle stesse attenzioni elargite a violini o contrabbassi, sembrava più facile imporre visuali che provenivano dal mondo della composizione e Viola era una particolare esplorazione-violazione di quanto Conrad o Dreyblatt avevano fatto vent’anni prima in tema di armonici, strutture minimali e a strati; l’effetto a cui mirava Fahndrich era costruire un sound sculpture camerale in ossequio alla magia degli spazi; in tal senso la sua Musik for raume aveva molto da vendere alle installazioni e alle sperimentazioni sulle “misure” dei suoni in un certo ambito (le dimensioni della stanza in cui si sviluppa la musica forniscono le frequenze dei suoni).  Lo svizzero è tornato spesso sull’argomento ed invero nella sua parca esposizione discografica ha portato avanti anche uno strano esperimento di spoken word in Betrachtung.
Il ritorno per Leo R., insieme ad un quartetto composto da Christy Doran, Remo Schnyder e Samuel Wettstein, ricompone alcune delle risorse storiche del violista a favore di una libera espressione e ne aggiunge altre: questa volta lo scopo è di sistemare la teoria della scultura sonora con i mezzi dell’improvvisazione, attraverso le tecniche dei troncamenti e dei bloccaggi, dei suoni spuri e apparentemente occasionali, delle velocità inedite, per creare l’atipico mondo della sospensione musicale; sono estensioni che ruotano parecchio su timbri inconsueti, che insinuano spesso un difficile esercizio di riconoscimento, soprattutto per la viola e il sax. Ame Seche approda ad un bellissimo obiettivo, quello di dimostrare che c’è fascino anche nelle apparenti secche dell’improvvisazione libera: se c’è competenza ed ispirazione riusciamo ad essere scaraventati in un’altra dimensione, una matura e credibile, in cui i suoni ci attirano ed irrimediabilmente formano auralmente un paesaggio in cui è piacevole rimanervi.
Trova sistemazione discografica il quartetto d’improvvisazione composto da Luca Sisera (cb), Guy Bettini (tromba e flicorno), Fabio Martini (clarinetto e alto sax) e Gerry Hemingway (bt), una formazione impegnata a suonare già da qualche anno nei festivals e circoli culturali. I quattro hanno scelto come nomenclatura Exodos, in ossequio ad un periodo in cui tale parola sembra essere purtroppo all’ordine del giorno, ma è comunque qualcosa che si lega sempre alla storia e all’arte. Prescindendo dai riferimenti alla tragedia greca e alle indiscrezioni che provengono dai dipinti di Bettini, il progetto musicale tende a sostenere una tesi euristica dell’improvvisazione: l’intuito e la casualità possono produrre nuove conoscenze, non esistono confini rigidi e predeterminati ma solo sviluppi empirici; ma bisogna fare attenzione che, secondo quanto detto dallo psicologo Gigerenzer, il prendere decisioni in un regime costante dell’intuito è figlio comunque di una preparazione precedente, perciò Heuristics è un percorso fatto benissimo del jazz e della libera espressione, calato nel tema della tragedia migratoria: è pieno di slanci, momenti molesti e sommessamente lamentosi, di circoli di definizione delle asperità, ed è quanto di meglio oggi ci si possa aspettare per ottenere una sincera e competente variabilità del jazz. Con Bettini e Martini sugli scudi, c’è da segnalare il talento pittorico di Bettini che ha la paternità della cover post-moderna del cd.
C’è un campo d’azione eccellente nel jazz che risucchia l’immaginazione con una facilità impressionante: si tratta di contestualizzazioni musicali che restano indelebili nella nostra memoria; pensate agli accordi modali di My favorite things o al canto spirituale di I love supreme di Coltrane, o ancora a quel bisbiglio empatico delle percussioni degli Art Ensemble of Chicago o ai rumini di tanta musica di Cecil Taylor; ciò che si è reso disponibile alla platea dei musicisti è dunque un patrimonio aurale su cui poter basare delle proprie varianti con la speranza di riuscire ad inserirsi in qualche modo in esso. E’ quanto probabilmente si propongono di fare il talentuoso pianista Eli Wallace e il batterista Rob Pumpelly nel loro esordio per Leo R., dal titolo Dialectical imagination (sottotitolo Two infinitudes; The one you “see” and the one that IS you): nel foglio di presentazione alla stampa vengono elencate parecchie aree della confluenza così come accennata prima, ma non c’è dubbio che i due musicisti impongano un proprio standard: dopo i dieci minuti di Immutable light (che compongono una dialettica enigmatica e vagamente spirituale), si concretizza l’idea di un’espressione galoppante, decisa e a tratti verbosa, che rileva il ruolo e la bravura dei musicisti. Non saprei dire quanta strada possa fare questo tipo di espressione, ma ciò che viene proposto come rapimento dei sensi deve essere in grado di creare vivide immagini alternative a quelle offerte dalla storia: ciò che conta è che alla fine resta un bel dipinto astratto che non dimentica il jazz, un turbine con una propria caratterizzazione, che può fare i conti con l’ombra lunga della storia della musica.
Ancora oggi è difficile imbastire un duo tra pianoforte ed organo a canne: le differenze di intonazione per strumenti che vanno continuamente adattati al clima per sincronizzarsi, rende dispendiosa la composizione, soprattutto a certe latitudini; a mia memoria, gli incontri tra i due strumenti hanno probabilmente una radice nell’epoca d’oro dell’organismo francese, quando compositori come Duruflé e Langlais hanno intravisto un repertorio, ma se è vero che l’esperimento è stato riproposto con più forza nel novecento (lasciando ampio spazio all’arrangiamento di pezzi non nati allo scopo) è anche vero che esso costituisce percentuali bassissime in rapporto a qualsiasi altra combinazione strumentale (senza parlare poi delle registrazioni, da prendere col contagocce).
Sembra che tali motivazioni non siano determinanti per il progetto di Slava Ganelin con l’organista di Chelyabinsk, Vladimir Homyakov: il ritorno discografico di Ganelin si sostanzia su alcune esibizioni che i due musicisti hanno effettuato nella sede della filarmonica, una locazione che taglia molti dei problemi acustici e che rende possibile far suonare assieme l’organo di reminiscenza clericale con gli altri strumenti. Nel caso di Ganelin, il palco è stato organizzato per dare spazio al suo pianoforte a coda, munito anche di un synth, di palmari analogici e di un piccolo set di percussioni. Neuma (questo il titolo) si compone di due suites improvvisate di circa 35 minuti l’una, che rispondono ad un clima dall’aroma progressivo e cinematografico: il synth detta le scelte, fissa i caratteri del cammino musicale con pianoforte, percussioni ed organo che si incontrano in specifici adeguamenti senza essere mai protagonisti; così facendo è probabile ritrovarsi in percezioni singolari delle tastiere degli ELP e Deep Purple, intercettare le istanze di una formazione di note ed accordi jazz di un piano moderno alla Jarrett e persino trovare spunti melodici e ritmici che potrebbero appartenere al cammino dei misteri dell’antico Egitto. Sono neumi, flessioni contemporanee e discutibili delle linee melodiche, che vorrebbero ripristinare un circolo ab origine della memoria.