Nella nostra esperienza d’ascolto siamo stati spesso abituati a valutare un’opera musicale solo in base alle nostre poche conoscenze e al nostro “gusto”. Una cosa che certamente non si fa è quella di andare a monte delle esibizioni e cercare di capire il tipo di formazione dei musicisti: nella libera improvvisazione sarebbe opportuno studiarsi qualche testo preliminare prima di accedere ad un concerto, al pari di qualsiasi altra disciplina musicale che dispone canali formativi specifici e ha proprie modalità di esecuzione. Questa precisazione è utile per capire che l’improvvisazione libera non è qualcosa che si ottiene per incanto, svegliandosi una mattina, ma è pratica che va compresa, studiata e funzionalizzata nel tempo.
Daniel Studer è un contrabbassista svizzero che costringe a rivedere qualsiasi leggera considerazione sull’argomento: ha suonato con molti pionieri dell’improvvisazione svizzera, in Italia è stato vicinissimo a Schiaffini e a tanti nomi storici del jazz ed è un contrabbassista riconosciuto a livello internazionale per la sua corretta e ispirata cognizione di ciò che costituisce la free improvisation. Quest’anno l’attività discografica è molto attiva per lui, tant’è che sono stati pubblicati 3 cds che propongono piani ed angolazioni diverse di un metodo partorito e coltivato tanti anni fa: su uno dei 3 cds dal titolo Zeit, sono già intervenuto qualche mese fa con una recensione specifica (vedi qui), duo di contrabbassi con Peter K Frey, con un live in cui si aggiungevano clarinetto e violoncello (Jurg Frey e Zimmerlin); gli argomenti ispirativi erano la gestione del tempo e l’evento. Qui di seguito, invece, faccio qualche considerazione sugli altri due cds.
Extended for String & Piano è un quartetto d’archi anomalo con aggiunta di pianoforte. E’ anomalo (rispetto alla consuetudine classica) perché è composto da violino, viola, violoncello e contrabbasso, affidati rispettivamente a Harald Kimmig, Frantz Loriot, Alfred Zimmerlin e naturalmente a lui stesso. Il pianista è Philip Zoubek e la sua funzione è ritagliata nello spazio creato dai musicisti a corda. E’ molto probabile che il concetto che ispira la musica stia nella trasposizione libera di forme subliminali di studio classico: c’è un riferimento specifico alla Bagatelle ed alle indicazioni caratteriali del pezzo come succede in comprimere, operandi, motus. Studer e il pool di musicisti richiamato sono uno dei pochissimi poli europei che intercettano studi estensivi sugli strumenti e sulle loro combinazioni libere: pertanto l’ascolto di Extended for String & Piano restituisce nel migliore dei modi un mondo sottile di percezioni e di vie di incrocio con la musica classica estensiva: ad un certo punto sia ha la netta sensazione che Webern sia stato filtrato nelle dita e nelle corde degli strumenti o si sia filtrato il Battistelli dell’artigianato; la verità è che questa libera interpretazione è così ben riuscita da non farci pensare che, indietro nel tempo, episodi dello stesso genere sono comunque numerosi.
Il quartetto di Suites and seeds, che Studer ha impostato con Loriot alla viola, Sebastian Strinning a sax tenore e clarinetto basso e Benjamin Brodbeck alla batteria, è ispirato dalla botanica e dai fenomeni della dispersione dei semi di alcune piante: il progetto si chiama infatti Anemochore, termine che inevitabilmente fa pensare al fenomeno della disseminazione che trova posto in terreni differenti da quelli in cui nasce la pianta, per effetto dell’azione del vento. Suites and seeds è un esempio di quante strade può calcare l’improvvisazione libera: potremmo svegliarci un mattino con un’idea e metterla in pratica nel giardino di casa, nell’ambiente “percussivo” della nostra cucina, potremmo in sostanza edificarla in casa. In questi casi è la raffinatezza ed intensità delle tecniche estensive, la loro acustica che fa la differenza e uno dei motivi per cui sfregare una corda all’aria aperta è cosa diversa dallo sfregamento in un auditorium con tanto di amplificazione; il processo di lavoro si imbatte in un’intricata selva di suoni ricavati con strofinamenti, movimenti specifici degli archetti, pizzicati, costrizioni delle corde e dei canali d’aria, sonicità ricavata da oggetti posti sugli strumenti, etc. La bellezza del lavoro dei quattro musicisti sta nel fatto che essi cercano delle dimensioni altere durante l’improvvisazione, sfruttando una piena capacità di compenetrazione tra loro: balza alle orecchie un mondo paradossale, che è molto lontano dall’essere causale e che ha i suoi crismi e momenti climatici.
Essendo in contatto con Studer, ho cercato di ottenere degli approfondimenti su quanto ascoltato, direttamente parlando con lui. Qui di seguito, vi riporto il contenuto del nostro dialogo.
EG: Nelle mie recensioni ho sottolineato legami che esistono tra una sperimentazione legata ad una libera interpretazione degli strumenti, con gli strumenti suonati in maniera estensiva e quanto invece proviene dalle scoperte ideologiche della musica classica in materia di non convenzionalità. Berio e Lachenmann hanno aperto un nuovo modo di concepire gli strumenti ed oggi le loro analisi estensive sono state arricchite ed ampliate da tante nuove tecniche, corroborate anche dagli improvvisatori. Tu sei uno di quelli che ha fatto la storia del contrabbasso nel jazz e della free improvisation e la sensazione è che operi come l’artigiano che opera nella sua bottega tramite i suoi arnesi: una serie di azioni frutto di competenze ed esperienza, che poi restituiscono un quadro musicale specifico. Comprovi la mia sensazione? E se sì, che tipo di relazioni cerchi di cogliere in questo orientamento? Da chi ti sei sentito stilisticamente attratto nel tuo cammino?
DS: Più vado avanti, più vedo come le varie esperienze musicali si ricongiungono. Da bambino con il violino amavo Haydn, da adolescente suonavo la chitarra, il basso elettrico e cantavo in un gruppo rock, poi ho suonato come contrabbassista jazz, arrivando all’improvvisazione libera e alla composizione più tardi. Ho continuato a sentire vari tipi di musica, anche se non le ho più eseguite. L’interesse per la musica scaturiva anche dal desiderio di riuscire a fare le cose che avevo in testa: quando ero giovane, per esempio, cercavo di riuscire a fare un “walking bass” con un certo suono, una certa flessibilità ed una certa libertà. Volevo comunque provare a fare le cose da me, di non farmi dire come bisognava fare. Mi facevo aiutare da insegnanti o amici che mi insegnavano la tecnica. Così era sempre un misto tra “learning by doing”, approfondimento personale da autodidatta-ricercatore e apprendimento dai dischi. Avere un obiettivo, imparare, pensare, fare, “produrre”, erano sempre strettamente collegati. Mi piaceva una cosa, allora volevo arrivare a realizzarla.
Inizialmente il contrabbasso era per me funzionale alla musica che volevo suonavo, cioè il Jazz. Man mano mi intrigavano sempre di più le possibilità tecniche, l’archetto, le preparazioni e, parallelamente a questo, naturalmente anche le musiche più moderne sia nel campo dell’Improvvisazione che della musica contemporanea scritta, compreso l’elettronica. Quindi si affermava un misto tra funzionalità, cioè studiare le parti per un concerto, studiare la tecnica dello strumento e poi giocare, vagare. Ricercare le possibilità sonore, ma anche formali col mio strumento. Questo lavoro portava anche a fare dei concerti e dischi come solista.
Magari si capisce meglio se ti spiego come studio. Provando fascino per la tecnica dello strumento l’ho approfondito dal punto di vista jazzistico e dal punto di vista classico. Mi piace di dare allo strumento un’espressione di leggerezza, un suono chiaro e diretto. Quindi devi avere forza e flessibilità nelle dita. Per questo ci sono esercizi. Poi ci sono delle cose di base come il suono o meglio i suoni, il ritmo jazzistico, classico, rock, il ritmo e il tempo nella musica contemporanea, e chiaramente anche tutto il mondo delle altezze del suono, lo studio melodico, armonico.
Studiare, giocare con lo strumento mi piace molto. Eseguivo degli studi intorno al pizzicato, suonando dei pezzi di musica classica di autori come Frescobaldi, Bottesini o Hindemith, per poi anche approfondire aspetti di tecniche più moderne, improvvisando attorno a temi come armonici, preparazioni (drumsticks, brushes, etc.) o alterazioni di suoni con l’arco o il pizzicato.
Intorno a questo c’è il lavoro con i gruppi, dove queste tecniche vengono applicate, c’è la scrittura e poi l’approfondimento musicale effettuato: quest’estate ad esempio, l’ho fatto tramite il libro su Lachenmann e Nono “Der Gang durch die Klippen”. Quindi ho sentito molta loro musica. Adesso sto leggendo il bellissimo libro di George Lewis su AACM “A power stronger than itself”, che mi riporta sui miei passi degli anni ottanta. E poi c’è il lavoro di scrittura, nuove idee che vorrei realizzare.
Ritorno all’inizio di quanto detto: tutte queste esperienze di ascolto, di studio, di progettualità si stimolano a vicenda. E quindi sì, come dici tu, “una serie di azioni frutto di competenze ed esperienza, che poi restituiscono un quadro musicale specifico”. Vorrei solo aggiungere che “lo specifico” diventa specifico nel momento della finalizzazione di un progetto, cioè nella registrazione, nella scrittura. Lo specifico cambia continuamente, anche se alla fine si potrà dire che il cammino non era così zigzag come qualche volta potrebbe sembrare. Mi sembra che sia soprattutto un continuo “zoom in” sui dettagli e un “zoom out” per una visione più globale.
EG: Oggi ci sono moltissimi contrabbassisti di valore, che mettono in campo belle idee. In molti studi (vedi per esempio il gruppo di studio umbro di Roccato) si è cominciato a relazionare l’improvvisazione anche con il supporto informatico. Fermo restando che è sempre necessario valutare i contenuti della musica, che evoluzione vedi per il contrabbasso? Cosa auspichi per esso?
DS: Domanda non semplice. Vedo come secondo il bassista cambia la direzione della ricerca. Pascal Niggenkemper, per esempio, cerca nuove soluzioni applicando apparecchi allo strumento. John Edwards trova nuove soluzioni, non tanto con nuove proposte tecniche, quanto sfruttando un modo molto personale nell’usare queste tecniche. Poi ci sono altri campi di ricerca come il contrabbasso elettronico, con il computer ecc. quindi l’evoluzione sicuramente continua. Auspico che si continui a cercare. Ma questo ovviamente succede.
EG: Le indicazioni caratteriali di Extended for string&piano fanno pensare ad una trasposizione “free” di indicazioni della musica classica. La tua Bagatelle mi ha fatto venire in mente l’omonimo componimento di Anton Webern, naturalmente con tutte le distanze del caso: la maggior parte degli studiosi ritiene che la Bagatelle dell’austriaco avesse intuizioni non strutturate. In quel pezzo e in quelli di Extended for string&piano hai voluto filtrare elementi della storia?
DS: I titoli sono scelte secondo i contenuti. Le Bagatelle si definiscono così perché sono pezzi corti che approfondiscono un tema da punti di vista diversi. I nomi in latino sono scelte per il contenuto, così per esempio i pezzi “verba” partono da una poesia e un ritmo di un testo latino. Quando scrivo, automaticamente filtro elementi della storia, certamente della mia storia musicale. Non ho mai approfondito Webern, anche se mi interessa soprattutto il suo lavoro spaziale, la frammentazione della melodia, il flusso attraverso gli strumento.
Dal momento che scrivo per improvvisatori e non per interpreti, certi aspetti della composizione (per esempio quella di Nono) non sono molto importanti per me, altri invece sì, come per esempio le sonorità, le proporzioni di tempo, la drammaturgia.
Come base cerco di capire come si può arrivare a una certa situazione musicale senza scriverle come fa un compositore classico, cioè dando il meno possibile indicazioni per avere il massimo della fantasia dell’improvvisatore. Quindi le mie indicazioni possono essere “fai quello che vuoi” da A a B, e magari da B a C ci sono parecchie indicazioni, con una scrittura semplice resa in modo piuttosto classico. Un po’ come si scrive per jazzisti. Con la differenza che cerco di organizzare tutto il pezzo.
EG: In Suites&seeds c’è un riferimento alla botanica. Negli ultimi tempi sta diventando un marchio di qualità delle proposte (penso al trio Natura Morta dove suona anche Loriot, tuo partner in questo quartetto o alle nordiche Spunk di Adventura botanica). Il valore sta nelle capacità subliminali della musica e nei musicisti che le sanno mettere in pratica. Sono dei momenti magici dell’improvvisazione in cui si raggiungono dimensioni non prospettate. Puoi dirci qualcosa a proposito di quanto è successo in Suites&Seeds?
DS: Difatti il nome del gruppo l’ha trovato Frantz. Con noi due è partito il gruppo. Comunque, non abbiamo una filosofia extra musicale. Cerchiamo di capire, approfondire ed allargare le possibilità musicali che troviamo, suonando. Cioè cerchiamo di mettere a fuoco quel magico nella musica che fa sì che un musicista abbia la voglia di suonare insieme ad altri. Lavoriamo con un metodo facile ma efficiente, cioè suonando, registrando, analizzando, ascoltando, discutendo e di nuovo suonando. Il difficile è di trovare un modo di non distruggere il magico della musica, le energie positive. Sostenere e mettere a fuoco le particolarità del gruppo e cercare di evitare le cose che piacciono di meno o non piacciono. Un lavoro di equilibri precari, perché facilmente si può offendere qualcuno o sbagliare direzione.