Cinque nuove pubblicazioni discografiche per cinque argomenti differenti della musica classica e contemporanea.
Parto dalla bella monografia di Carlo Forlivesi, che è già una manifestazione programmatica sin dalla copertina: pubblicato per Tactus R., riproduce un’ammonite antica inglese che giace su un reticolo scomposto di onde che riflettono il ricamo sonoro di un pirolo giapponese. Forlivesi è uno dei pochi compositori italiani che si interessato attivamente della strumentazione orientale tradizionale, studiandola da vicino sul posto ed introducendo sostanziali novità nelle accordature e nelle tecniche di esecuzione. Sebbene Compositions (titolo della monografia) prenda in esame tutto il ventaglio delle soluzioni compositive di Forlivesi, c’è un nucleo di composizioni sub-settoriali che si pone come punto di arrivo di una filosofia del comporre, che è allo stesso tempo innovazione e fascino creativo: dell’avvicinamento tra culture musicali differenti si è tanto discusso e oggi si pensa di aver trovato anche chiavi di volta di una definitiva sistemazione dei rapporti, incoraggiati dal fitto scambio di informazioni e di interazioni; tuttavia sono pochi quelli che hanno cercato di andare oltre un normale sincretismo delle tradizioni musicali, per oggettivare modificazioni su strumenti e partiture in grado di tracciare nuove strade estetiche. Nell’ampia parte dedicata alle composizioni per strumenti tradizionali giapponesi o alla musica da camera, Forlivesi sottolinea un ruolo nuovo di essi, che è espressione di uno studio sui timbri, sui microtoni, sui sistemi di accordature: è per questo che shakuhachi, koto o biwa suonano differenti sia rispetto agli esperti suonatori giapponesi sia rispetto ai molti reiteranti occidentali; la ricerca di un timbro speciale, che sia in grado di farci percepire gli eventi in maniera diversa da quanto già conosciuto, si accompagna alla volontà di ottenere un unicum estetico, né ovest né est prevalente, né luogo di sintesi culturale, ma nuovo modello con proprie individualità informative (ibridi di partitura tradizionale e grafica), delle diteggiature e dei temperamenti delle accordature (Carlo ha ridato fiato al biwa, uno strumento dalle difficili proprietà acustiche), nel concepimento di colori timbrici non usuali nella tradizione giapponese. Perciò brani come Ugetsu, En la soledad i el silenci o Chinmoku no tsuki/Silenziosa luna, vivono lungo una linea virtuosa che regala all’occidentale una fattiva modifica dell’apparato sonoro tradizionale: Forlivesi salta quel rispetto dei canoni tradizionali, fonte di nutrimento della formazione musicale ed estetica del compositore, deviando sia da quanto prospettato da Takemitsu fino ai compositori dei giorni nostri, sia da quelli (occidentali e giapponesi) che hanno messo in moto dei processi più “aggressivi”. Per Forlivesi l’operazione dev’essere culturale, ma argomentata come in una foto ben curata, ottenuta con modifiche che devono raggiungere uno stadio nuovo ed emotivo dei timbri: l’apertura del cd, dedicata a due lavori acusmatici, frutto di un processing splendido, conferma l’importanza del momento psicologico, con un lavoro certosino sulla consistenza, risonanza e dinamica dei suoni; in Elements le sonorità sembrano scapparci dalle cuffie a causa della loro fortissima presenza acustica e del loro equilibrio, per ciò che somiglia ad un pezzo iniettato di suprematismo tecnologico. Questa è ottima musica contemporanea, anche quando le estensioni si infiltrano nei Rosenleben per fornirci materia asmatica dei suoni o nel piano solo di La pointe à la droite du coeur, diviso tra enfatizzazioni timbriche e passaggi virtuosi.
Delle perfezioni acustiche si nutrono anche le due composizioni da camera che il compositore spagnolo Josep Maria Guix ha registrato per Neu Records, etichetta particolarmente attenta alle tecniche di registrazione: Images vive una fortissima simbiosi con l’arte pittorica di Fernando Zòbel, il cui Jardìn seco appare in copertina ed ispira l’impronta stilistica della musica di Guix. Per un compositore particolarmente attento alle vibrazioni del suono sono necessari musicisti ed impianti di amplificazione in grado di concentrarsi sulle sue qualità e se da una parte la Neu ha fatto tesoro di questo principio già da molto tempo, fornendo pochissime produzioni super curate nella forma, dall’altra la London Sinfonietta potrebbe essere sprecata per il tipo di composizione di Guix, che ha scelto un’organizzazione minima di materiali e di azioni; si è subito smentiti non appena si entra in contatto con Vent del capvespre, un vero e proprio “specchiarsi” nel suono. Nonostante non ci sia nulla che gridi al miracolo dell’invenzione, Vent del capvespre affascina per la profondità dei suoni, gode un’attenzione direi quasi religiosa da parte dei musicisti, dove le tenui melodie sono nettamente preferite ai frastuoni; cos’è la musica di Guix, moderno impressionismo caricato nello spazio acustico? No, è musica piantata nel 21 secolo, che sfrutta le invenzioni della fine di quello precedente: la “grandezza” del suono è il teorema, un suono che riesce a fornire novità ad ogni attacco, durante i semi-silenzi, negli anfratti delle risonanze; quando Zòbel arrivò nella fase di Jardìn seco, era diventato un pittore di un’accuratezza fantastica, dove l’astrattismo dell’osservato era soffocato dalla luce, una luce che sembra il risultato di un’immissione di gas nell’aria, ma di totale presa; ciò che costituisce oggetto dell’osservazione diventa materia surreale, perde razionalità visiva per acquisire sensibilità mentale e la musica di Jardìn seco ha esattamente queste caratteristiche, è fatta per fornire con delicatezza e tranquillità, luce, bellezza e, in definitiva, coordinate creative di un pensiero solo apparentemente immobile.
Nell’ambito di una serie musicale per pianisti ospitata dalla col legno, ho selezionato il cd di Hélène Pereira, un’interessante pianista francese che pubblica Azoth, 7 composizioni di autori francesi, nell’ordine Robert Coinel, Régis Campo, François Rossé, Hugues Dufourt, Philippe Festou, Rey Elsen, Dominique Lemaitre, che si sono impegnati nel delineare, a proprio modo, una tematica degli elementi, intendendo con questi gli agenti della cosmogonia: Aria, Terra, Fuoco, Acqua, Metallo, Legno, Etere. Si tratta di pezzi composti tra il 1993 e il 2018, con molti di essi in prima mondiale: la Pereira ha lavorato alacremente assieme ai compositori per la perfetta riuscita dei pezzi, insinuando al tempo stesso un concetto di “nouvelle conscience” attribuita all’alchemia della musica. Se su questo punto lascio riflettere i filosofi, è su quello storico che mi preoccupo di trovare una posizione: che peso può avere questa raccolta di Hélène? Francamente, non la me sentirei di reclamare una posizione comprensiva di tutte le tendenze pianistiche francesi degli ultimi vent’anni. L’ascolto dei pezzi di Azoth rappresenta alcune correnti ma ne tiene fuori altre: Vent d’automne, lo splendido pezzo composto da Dufourt nel 2011, è portavoce della pratica spettralista (che tira Murail, Lévinas, Campion, Dalbavie), i clusters e le armonizzazioni dell’universo post-debussiano giocano un ruolo fondamentale in Echos du sud di Coinel e Wind und wasser di Rossé, le velocizzazioni di Irrlichter di Campo rappresentano lo stile “volontariamente giocoso ed energico” dell’autore, che ha trovato terreno d’espressione in molti pianisti, mentre Quintessence di Festou prescrive l’immissione negli interni del pianoforte accompagnata dalla recitazione. Resta fuori la microtonalità di Bancquart, qualcosa dello strutturalismo di Boulez, le inserzioni profonde dell’elettronica di Manoury e le Disposition Furtive di Pesson; se poi consideriamo Mark Andre un francese, non potremmo fare a meno di inserirlo in cima alla lista degli innovatori delle mappature delle corde interne dei pianoforti. Azoth, perciò resta monco nel pensiero di una bravissima pianista che è innamorata di un concetto di trasformazione degli elementi che lei sente nelle evoluzioni pianistiche. Tuttavia se prescriviamo qualsiasi dichiarazione di appartenenza a sensibilità che non paiono nuove, Azoth è uno dei migliori ascolti che si possono fare di questi tempi.
Una pubblicazione decisamente interessante è quella di Three pieces in polytempic polymicrotonaly del compositore Peter Thoegersen, pubblicata su New World Record: come la titolazione suggerisce si tratta di una composizione che unisce più linee microtonali in più tempi, qualcosa che non era ancora stata realizzata in letteratura musicale; le linee microtonali sono teoricamente affidate ad un ensemble, in cui ciascuna famiglia strumentale è portatrice di una determinata scala microtonale e di un tempo (woodwinds, brass, cello e percussions). Thoegersen ha sviscerato un pò l’esperimento che Charles Ives fece in Universe Symphony: Ives aveva previsto 20 linee indipendenti, ognuna con un metro separato e la sua idea si articolava sul fatto che tale composizione dovesse riflettere l’impulso eterno, il movimento planetario con le sue complessità; in verità di polimicrotonalità se ne occupò subito nel dopo guerra anche Jean-Etienne Marie, il quale potè disporre anche dei progressi dell’elettronica. La prospettiva di un supporto elettronico è essenziale per le perfomances delle composizioni di Thoegersen, tant’è la difficoltà di coordinamento degli esecutori: i pezzi sono perciò resi in forma elettronica, attraverso il synth del compositore, ma resta positiva l’impressione di un ritorno ciclico delle linee microtonali; resta il disturbo per la mancanza della versione strumentale, poiché per legni ed ottoni la sostituzione elettronica mi sembra un pò penalizzante ai fini estetici; lo stesso rammarico si avverte per The irrational quartet (fondato su polimicrotonalità e tempi fissati con numeri matematici e radici quadrate), per quello che potrebbe essere un serio ed unico concorrente dei quartetti di Johnston. Nell’attesa di nuovi sviluppi sul punto, qualsiasi serio appassionato di musica, di questo lavoro, ne dovrebbe comunque prendere visione.
Per finire vi segnalo il cd Paths del Goldfield Ensemble per NMC R., che esegue composizioni molto belle della compositrice Erika Fox: supportata da una fondazione, la 82enne compositrice inglese gode finalmente di una registrazione ufficiale di alcune delle sue composizioni. Il pianista Richard Uttley dà una bella dimostrazione delle qualità introspettive della Fox in On Visiting Stravinsky’s grave at San Michele, che miscela molto bene il dispiacere e il pensiero della perdita con i caratteri essenziali del russo, prima tra tutto l’ostinato. Ma sono, comunque, i temi impostati sulle vicende della sua vita l’oggetto più profondo della sua composizione: l’appartenenza alla chiesa ortodossa ebrea, la guerra e i collegamenti legati alla militarizzazione dei territori sono sostanziosi argomenti per costruire musica, vedi la tensione seriale di Malinconia Militaire e il contrasto che si crea tra il delicato sgomento e l’aria decisa ed apparentemente convenzionale del ritrovo al Cafe Warsaw, modalità di espressioni musicali particolarmente riuscite. In tutti i pezzi della Fox è decisiva l’ispirazione poetica e letteraria, che fornisce linfa per le eccellenti simulazioni allusive (Levi, Milosz).